Lucio Guidiceandrea
Italiani in Südtirol
A oltre trenta anni dall’entrata in vigore dello Statuto di autonomia per la provincia di Bolzano, la comunità italiana in Alto Adige si trova al suo minimo storico quanto a consistenza numerica, forza economica, peso politico e influenza culturale. Una condizione solitamente presentata come il risultato di una sorta di rivincita attuata dalla minoranza nazionale tedesca in Alto Adige, che gestirebbe l’autonomia della provincia come una sorta di apartheid.
Spaesati, Italiani in Südtirol presenta invece una lettura diversa, individuando le cause della decadenza del gruppo altoatesino nella storia politica italiana, a Roma come a Bolzano. L’ignavia politica di cui ha dato prova lo Stato alle prese con la questione sudtirolese ha pesantemente pregiudicato i rapporti tra i due maggiori gruppi linguistici in Alto Adige. I sudtirolesi hanno sviluppato una forte identità culturale e politica, rendendosi protagonisti di un’epica rinascita. Gli altoatesini invece, mandati nella nuova provincia da colonizzatori, sono stati abbandonati a se stessi quando le pressioni internazionali hanno costretto l’Italia a tener fede ai suoi impegni nei confronti della minoranza tedesca. Cause della debolezza del gruppo altoatesino sono inoltre le politiche dei diversi partiti, nessuno dei quali è riuscito a proporre un progetto credibile e percorribile di partecipazione al governo della provincia. Gravi insufficienze hanno dimostrato anche la scuola e l’informazione italiane, che non riescono a dare agli altoatesini le conoscenze e gli strumenti necessari per vivere in questa terra, lasciandoli appunto nella condizione di spaesati.
Partendo dalla cronaca degli ultimi anni, il libro presenta una rassegna degli errori e delle insufficienze messe in campo dallo Stato italiano, dal mondo politico e cultura. È una rassegna paradossale, perché mostra che spesso coloro che proclamavano di voler difendere gli italiani, hanno lavorato in realtà contro i loro interessi.
Lucio Giudiceandrea è nato nel 1956 a Bressanone da una famiglia di origine calabrese. Laureato in filosofia, è autore di saggi, pubblicazioni e documentari televisivi di carattere storico e scientifico. Giornalista della sede Rai di Bolzano, segue con continuità la cronaca politica in Sudtirolo. Per diverse testate e rubriche giornalistiche realizza reportages nell’area tedesca e mitteleuropea.
A mia madre e a mio padre
che mi hanno generato e fatto nascere in questa terra.
Sostenuto dal Circolo culturale calabrese
“Giuseppe Giudiceandrea”, Bressanone
© Edition Raetia, Bolzano 2015
Progetto grafico: Dall’O & Freunde, Bolzano
Foto in copertina: Filippo Pitscheider
Impaginazione e stampa: La Commerciale Borgogno, Bolzano
ISBN Print: 978-88-7283-285-1
ISBN E-Book: 978-88-7283-550-0
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Il lettore non tema di ritrovarsi tra le mani l’ennesimo libro sulla questione sudtirolese. Tale questione, che riguarda propriamente la tutela della minoranza nazionale di lingua tedesca residente in provincia di Bolzano, ha dominato l’ultimo mezzo secolo di storia locale, ma oggi essa è da considerarsi definitivamente risolta. Lo è non tanto per quel documento ufficiale chiamato “quietanza liberatoria”, rilasciato nel giugno 1992 dall’Austria, cui è internazionalmente riconosciuta la funzione di “potenza tutrice” della minoranza sudtirolese in Italia.1 Quel documento dà atto al nostro paese di avere attuato quanto previsto dall’Accordo Degasperi – Gruber, firmato a Parigi nel 1946, dove si parla di “disposizioni speciali destinate a salvaguardare il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca”.2 Ma non fu la “quietanza” a estinguere un debito storico che l’Italia aveva contratto di fronte alla comunità internazionale e di fronte ai propri cittadini, compresi quelli parlanti una lingua diversa. A rendersi protagonisti del proprio destino, fin dagli anni Cinquanta, sono stati i sudtirolesi3 stessi, che hanno portato a termine un formidabile processo di riscatto politico, sociale e culturale. Nel dopoguerra, quando Otto von Guggenberg e Friedl Volgger, due rappresentanti dell’appena fondata Südtiroler Volkspartei, decisero di assistere ai lavori della Conferenza di pace di Parigi, sia pure solo dalle anticamere, per espatriare dovettero attraversare il confine italoaustriaco clandestinamente4 – e lo fecero nel luogo dove molti decenni dopo sarebbe stato ritrovato il celeberrimo Uomo venuto dai ghiacci. Questo per dire che, sessant’anni fa, i sudtirolesi erano nessuno; oggi sono la minoranza meglio tutelata e più solida in Europa e probabilmente al mondo, grazie a un sistema di autogoverno internazionalmente garantito, a un diffuso benessere e soprattutto a una solida coscienza della propria storia e della propria identità.
Argomento di questo libro dunque non è la questione sudtirolese, ma la questione altoatesina, o più precisamente la questione degli altoatesini, intendendo con questa ultima parola gli abitanti italiani della provincia di Bolzano. La stessa epoca che ha segnato il riscatto della minoranza sudtirolese ha infatti segnato la decadenza della comunità altoatesina, che è approdata in questi ultimi anni al punto più basso della sua storia. Allo stato attuale delle cose, le mancano sia i numeri per determinare le scelte politiche, sia l’autorevolezza per dare un contributo significativo allo sviluppo sociale e culturale della terra in cui vive. Del tessuto economico la comunità altoatesina rappresenta la parte più debole, essendo scarso il numero di chi ha una qualche impresa o attività autonoma e relativamente alto quello di chi ha un rapporto di lavoro dipendente. Culturalmente essa continua a mantenersi estranea alla realtà locale e a richiamarsi a una dimensione nazionale sempre più lontana e astrusa. Ci sono segnali preoccupanti anche dal punto di vista demografico. Non tanto per i numeri assoluti: al censimento del 2001 si dichiarò appartenente o aggregato al gruppo italiano il 26,3 % della popolazione, l'1,18 % in meno rispetto a dieci anni prima. Se invece si analizza il gruppo per classi di età, risulta che gli ultracinquantenni italiani sono il 34% dell’intera popolazione, mentre gli italiani con meno di cinquant’anni sono solo il 18% dell’intera popolazione.5 La comunità, in altre parole, è vecchia. “Vuoti a perdere” qualcuno definisce gli italiani dell’Alto Adige. Espressione cruda, ma che rende l’idea.
Ovviamente, la stragrande maggioranza di coloro che a vario titolo interpretano le opinioni degli altoatesini – politici, giornalisti, storici, saggisti, commentatori… – ha un giudizio abbastanza definito sul perché le cose siano giunte a questo punto. La colpa, essi dicono e pensano, senza apprezzabili differenze tra persone che pure appartengono a orientamenti politici diversi, è della Südtiroler Volkspartei, il partito di raccolta dei sudtirolesi. È la SVP che con il ricatto della tutela della minoranza ha instaurato una sorta di “apartheid” mascherata, come ha sostenuto l’ambasciatore Sergio Romano sul più diffuso quotidiano nazionale.6 È la SVP che ha costruito un sistema finalizzato all’esclusione degli italiani e di chi non appartiene o non si affida al gruppo tedesco. È la SVP che ha voluto la famigerata “proporzionale etnica” come chiave per la distribuzione dei posti e dei benefici pubblici, riducendo i margini a disposizione degli italiani; è lei che ha voluto il “bilinguismo” nella pubblica amministrazione, del quale per anni si è detto che umilia il merito e favorisce i mediocri. È la SVP che controlla tutte le risorse, destinandole a settori e finalità prevalentemente in mano tedesca. È la SVP che amministra questa terra come se fosse un maso chiuso, soffocando la cultura, la democrazia e ogni forma di dissenso.
Non può esservi alcun dubbio sul fatto che la Südtiroler Volkspartei è il partito che più di ogni altro ha contribuito a determinare la storia contemporanea di questa terra. Non senza ragione, molti commentatori notano che il sistema-Provincia coincide sostanzialmente con il sistema-partito. Se questo è vero, ne consegue che anche ciò che avviene all'interno della comunità altoatesina è determinato, direttamente o indirettamente, dall'azione di quel partito. Come vedremo, le scelte e la condotta della SVP hanno messo in difficoltà il gruppo altoatesino non tanto e non solo sul piano materiale, quanto su quello, molto più delicato, del sentire sociale, alimentando il suo senso di estraneità e di non appartenenza ai destini di questa terra. Ciò nonostante, la sconfitta italiana in Alto Adige ha tutta una serie di cause che sono interne alla nostra storia e alla nostra tradizione e alle quali si è dedicata fino ad oggi troppo poca attenzione. Questo libro cerca di metterle in evidenza, prendendo spunto da una serie di avvenimenti e ricorrenze colti nell’arco di due anni e mezzo: il periodo di tempo che va dall'elezione del Consiglio provinciale nell’ottobre del 2003, alle elezioni politiche della primavera del 2006.
Se proprio si vorrà estremizzare la sua tesi, si potrà dire che esso attribuisce la colpa di questa condizione agli italiani stessi. L’autore potrebbe anche condividere, ma preferirebbe sostituire la parola colpa con la parola responsabilità: la prima è un concetto moralistico, la seconda è invece un concetto pragmatico, che rimanda alle nostre scelte e condotte concrete. Le maggiori responsabilità della sconfitta italiana in Alto Adige, queste sì, sono da ricercare principalmente in casa nostra. Non sarà difficile rintracciarle, andando a vedere quel che lo stato, i partiti, le istituzioni, i ceti intellettuali, la scuola, l'informazione e gli altri soggetti che formano la cultura e la coscienza di una comunità hanno fatto (e soprattutto ciò che non hanno fatto) in questi ultimi decenni per il bene della gente che dicono di voler difendere. Si ripete spesso, con insopportabile retorica, che la condizione di vivere a contatto con una cultura diversa dalla propria rappresenta per tutti gli abitanti di questa provincia – tedeschi, italiani e ladini – una straordinaria opportunità. In tutta sincerità bisogna dire che la comunità italiana questa opportunità non è stata in grado di coglierla, almeno finora. Come l’inadeguatezza complessiva della nostra società, molto più che la volontà prevaricatrice dell’altro, ci ha condotti all’emarginazione e alla perdita progressiva di ogni ruolo: la questione altoatesina, la questione di noi altoatesini, sta tutta qui. Bisognerebbe cominciare a prenderne atto.
Lucio Giudiceandrea, Bolzano, novembre 2006.
I dati dei paesi sono i primi ad arrivare al conteggio ufficiale dei voti, quando ci sono le elezioni in provincia di Bolzano. Non perché gli scrutatori valligiani siano più diligenti di quelli cittadini, come si potrebbe insinuare. La ragione è un’altra, e cioè che in periferia i segni apposti sulle schede elettorali variano tra poche caselle. Il grosso va tradizionalmente alla stella alpina della Südtiroler Volkspartei, con margini in aumento per la colomba dei Verdi e per i simboli di altri due partiti tedeschi; le croci sulle liste italiane sono invece decisamente sporadiche. Diversa la situazione a Bolzano e nelle altre città in cui la comunità italiana raggiunge una certa consistenza. Qui i segni iniziano a sparpagliarsi su un numero maggiore di simboli e il conteggio si fa giocoforza più complicato.
Anche la mattina di lunedì 27 ottobre 2003, il giorno dopo l’elezione del Consiglio provinciale, i dati dei paesi sono i primi ad arrivare al calcolatore del centro elettorale allestito nella sede del governo provinciale, Palazzo Widmann, a Bolzano. Solo che questa volta la tendenza indicata dal cuore profondo dell’elettorato sudtirolese è tutt’altro che favorevole alla Südtiroler Volkspartei. I risultati diffusi dai primi notiziari radiofonici del mattino sono spietati: Bressanone: -7,5%, Brunico: -4,6%, Vipiteno: -6%, Lana: -4,7%. La SVP, che partiva da un grasso 56,6% dei voti, sembra sul punto di perdere la maggioranza assoluta. Crescono invece le forze di opposizione nel mondo sudtirolese. Più di tutti i Grünen/Verdi/Verc, poi altri due partiti, i Freiheitlichen e la Union für Südtirol, che la geografia politica definisce “di destra”: i primi con una certa ragione, la seconda con una certa forzatura. Nel suo primo commento di quella lunga giornata l’Obmann Siegfried Brugger riconosce la sconfitta della SVP, dicendo che occorre un profondo ripensamento del modo di impostare l’azione politica. In visibilio gli oppositori, che annunciano la fine dell’onnipotenza del partito che ha potuto legiferare e amministrare per decenni senza mai dover venire a patti con nessuno. La tanto auspicata democratizzazione della politica in Alto Adige-Südtirol pare finalmente compiuta.
A mezzogiorno e mezzo il Presidente della Giunta provinciale Luis Durnwalder, l’uomo che incarna il potere sudtirolese dalla fine degli anni Ottanta, arriva puntuale come ogni lunedì all’incontro con i giornalisti. La sala stampa è gremita, tutti aspettano un commento sul pesante salasso della Volkspartei. Il Landeshauptmann tiene in mano un foglio con poche cifre; mentre parla muove poco la testa, ma molto gli occhi; come sempre è sicuro del fatto suo. Ipotizza un calo del 4%, che in ogni caso consentirebbe al suo partito di mantenere la maggioranza assoluta. Ma aggiunge anche che la tendenza nelle città è tutt’altro che sfavorevole e che anzi c’è da aspettarsi un recupero per l’Edelweiß, la Stella alpina. In effetti, il quadro cambia notevolmente con l’arrivo dei risultati cittadini. Qui la SVP non perde affatto, ma anzi guadagna: Bolzano +1,7%, Laives +5,4%, Merano +3,1%, Bronzolo +5,5%. Nel primo pomeriggio due tendenze sono ormai evidenti. Primo: un generale aumento dell’astensionismo, soprattutto nelle città. Bolzano –7,2% di votanti, Laives –7,7%, Merano –5,5%. Secondo: la Stella alpina è ben lontana dal perdere la maggioranza assoluta, assestandosi al 55,6% dei voti. Rinviato il sogno di una democratizzazione della politica locale, si delinea invece un fenomeno che solo pochi, fino ad allora, avevano preso sul serio: un consistente voto italiano al partito di raccolta dei sudtirolesi. “Die Italiener retten die SVP”, “Gli italiani salvano la SVP”, recita il titolo molto azzeccato di un lancio dell’agenzia di stampa austriaca Apa nel pomeriggio.
Fissando gli schermi dei terminali con gli ultimi dati o masticando un panino al generoso buffet allestito in sala stampa, politici, giornalisti e curiosi intrecciano nuovi commenti. I più sono imbarazzati. Gli italiani faticano a spiegarsi il fatto che una quota significativa di elettori altoatesini abbia dato il proprio consenso a quello che è sempre stato presentato come il loro nemico storico. Per contro, gli esponenti della Volkspartei, pur soddisfatti del risultato complessivo, intravedono il pericolo che i voti degli italiani facciano perdere al partito, che si è sempre presentato come il difensore della minoranza sudtirolese, il suo carattere etnico. In altre parole: la sua ragione fondante. Tuttavia, non sarà neppure il voto “transetnico”, fenomeno ben diverso dal voto “interetnico” anche se altrettanto interessante, a dominare il titoli dei telegiornali della sera e dei quotidiani del giorno dopo. Nel tardo pomeriggio si precisa il quadro dei rapporti di forza tra i partiti disegnato dagli elettori. La SVP perde un punto, mentre cresce l’opposizione tedesca. Guadagna l'1,2%, arrivando al 6,8%, la Union für Südtirol, lista che fa capo a Eva Klotz e che da sempre si batte per la Selbstbestimmung, l’autodeterminazione dei sudtirolesi. Guadagnano il 2,5% i Freiheitlichen, che si richiamano all’omonimo partito austriaco portato alla ribalta internazionale e poi distrutto da Jörg Haider, conquistando il 5%. I rappresentanti della Union e dei Freiheitlichen festeggiano più di tutti quando si accendono le luci delle telecamere: un segno del fatto che quando gli elettori sudtirolesi abbandonano il vecchio partito di raccolta lo fanno per premiare anche partiti decisamente più “etnici” della SVP. Guadagnano l’1,4% i Grünen/Verdi/Verc, arrivando al 7,9%, ma la loro è una vittoria mutilata. Il partito che si era sempre proposto di superare le barriere etniche e che aveva come sempre presentato una lista comprendente candidati di tutti i gruppi linguistici, manda tre deputati al parlamento provinciale, tutti e tre sudtirolesi, ma boccia il capolista italiano: gli eredi di Alexander Langer hanno perso una fetta consistente della loro “interetnicità”.
“Sconfitto il voto italiano”, titola il giorno dopo il quotidiano “Alto Adige” a tutta pagina. Il dato è lampante: tutti i partiti italiani escono con le ossa rotte dalle elezioni del 26 ottobre 2003, con la trascurabile eccezione di due liste che si presentavano per la prima volta. Perdono i tradizionali alleati della Volkspartei. La lista Unione autonomista, che era riuscita a mettere insieme (quasi) tutto ciò che rimaneva della vecchia area democristiana, e la lista Pace e diritti, che era riuscita a mettere insieme (quasi) tutte le varie anime della sinistra. Nulla di nuovo su questo fronte. Da almeno vent’anni è una costante delle elezioni in provincia di Bolzano: chi governa con la SVP viene inesorabilmente punito dall’elettore altoatesino. Questa volta tuttavia c’è una novità, e di non poco conto. Perché questa volta anche per le tre liste del centro-destra c’è un segnale d’arresto. Alleanza nazionale, che dagli anni Ottanta raccoglie la maggioranza dei consensi del gruppo italiano, paga l’1,3%, scendendo a 8,4%; Forza Italia, nonostante massicci investimenti in pubblicità, perde lo 0,3% e si ferma al 3,4%; lo stesso vale per Unitalia, che non va oltre l'1,5%. I tre partiti coprono l’intero spettro del nazionalismo altoatesino. Ma né Unitalia con il suo tricolore, né Forza Italia che vanta sul piano locale un rapporto privilegiato con un personaggio di rilievo come Franco Frattini, né Alleanza nazionale con la sua svolta moderata avviata negli anni Novanta sono riusciti a mobilitare gli italiani. Di qui una buona fetta di astensioni, segno della stanchezza nei confronti di una politica che in mezzo secolo non ha saputo proporre altro che opposizione.
Il quadro politico uscito dalle elezioni è desolante per il gruppo altoatesino. Nell’assemblea provinciale i consiglieri italiani da nove si riducono a sette.1 Nel governo provinciale gli assessori italiani passano da tre a due, a fronte di un assessore ladino e otto di lingua tedesca, tutti targati SVP. “È il fallimento della politica italiana in Alto Adige”, nota un osservatore sufficientemente informato e che può permettersi un certo distacco come l’onorevole Gianclaudio Bressa.2 La conseguenza più tangibile di questi nuovi rapporti tra i gruppi linguistici è una sensibile riduzione dei posti pubblici che vengono assegnati secondo la “proporzionale” presente appunto in Consiglio provinciale. La conseguenza più significativa sul piano politico sta invece nella discrepanza tra la reale consistenza del gruppo italiano, fotografata nel censimento linguistico della popolazione del 2001 al 26,3%, e la sua rappresentanza politica, ottenuta sommando tutte le percentuali effettive delle liste “italiane”, scesa al 23,2%. Gli altoatesini si sono per così dire inflitti una perdita di tre punti. Nel governo e nei centri di potere della provincia, il loro peso effettivo, come tutti notano, è ancora minore. Ne fa tema di una tenace campagna giornalistica il quotidiano “Alto Adige” agli inizi del 2006: su quindici “poltrone dell'economia” in varie società, enti o associazioni controllati dalla Provincia autonoma di Bolzano, quattordici sono occupate da un presidente del gruppo sudtirolese e nessuna da un direttore del gruppo italiano.3 Difficile immaginare una situazione di sfiducia e di scollamento maggiore tra una società e la classe politica che vorrebbe rappresentarne gli interessi.
Debole e minoritaria sul piano politico, la comunità altoatesina si è a lungo illusa che le sue ragioni potessero essere difese e sostenute almeno dagli organi istituzionali che lo stato ha mantenuto in questa provincia. I corpi militari e di polizia, la magistratura, il Commissariato del Governo sono stati e in parte sono ancora considerati i baluardi dello stato in una provincia fin troppo “autonoma”, ai quali affidare le residue speranze di affermazione della sovranità nazionale. Ciò vale soprattutto per il Commissariato del Governo, un istituto previsto a Bolzano come a Trento, ma non in una regione autonoma come la Sicilia. La SVP ne chiede da anni l'abolizione, mal sopportando l'esistenza di un ufficio preposto, tra l'altro, a “relazionare” al governo centrale sull'attività legislativa della Provincia di Bolzano. (Qualcuno aggiunge un altro motivo: il Landeshauptmann Luis Durnwalder vorrebbe per sé la prestigiosa sede di Palazzo Ducale, in via Principe Eugenio, a Bolzano). Per contro, tutti i partiti italiani hanno sempre difeso il Commissariato del Governo, affermando che esso garantisce equilibrio nei rapporti tra le istituzioni locali e nazionali. Eppure, proprio intorno a questa figura e intorno a questo nome, “Commissario”, si è messo in scena un balletto, nell'estate del 2005, che dimostra quanto malferma sia in realtà la presenza dello stato in Alto Adige e quanto malriposta la fiducia degli altoatesini in esso.
Il balletto inizia il 24 giugno con l'entrata in scena di un Commissario straordinario per il Comune di Bolzano. Un mese prima, il 22 maggio, il candidato del centro-destra Giovanni Benussi era uscito vincitore, con soli sette voti di scarto, dal ballottaggio per l’elezione del sindaco; tuttavia, lo stesso Benussi non era poi riuscito ad ottenere in consiglio comunale la maggioranza necessaria per sostenere la sua giunta. Il Comune capoluogo viene quindi commissariato in vista di nuove elezioni da tenersi in autunno. A ricoprire il ruolo di Commissario straordinario per il Comune di Bolzano, in attesa di nuove elezioni, viene nominato dal Ministero degli interni Marcello Forestiere, che già aveva ricoperto simili incarichi in altre città italiane. Gli vengono subito affiancati dal Commissario del Governo Giustino Di Santo due “Subcommissari” (il termine ufficiale è proprio questo), entrambi funzionari della Prefettura di Bolzano. La mossa appare singolare: in fondo, un Commissario straordinario deve controllare gli affari correnti dell'amministrazione; un conto è se egli stesso si sceglie degli assistenti, un altro se, come in questo caso, gli vengono imposti due tutori. A questi se ne aggiunge poi un terzo, questa volta un funzionario provinciale, dopo che il Presidente Durnwalder aveva dichiarato che era quantomeno inopportuno che tra i tre amministratori straordinari del comune capoluogo non vi fosse un sudtirolese.
L'azione riceve un'inaspettata svolta la sera del 13 luglio, quando il Commissario del Governo solleva dall'incarico il Commissario straordinario. La decisione viene motivata con una ragione già di per sé significativa: “Per amministrare Bolzano con i poteri del Sindaco, della Giunta e del Consiglio comunale occorre una persona che conosca bene la situazione locale e lo Statuto”,4 dichiara Giustino Di Santo al telegiornale regionale della Rai. Non ci vuole molto a tradurre: il Commissario del governo dice in sostanza che Roma ha mandato una persona non all'altezza. Ancora più sbalorditiva è la risposta data all'intervistatore che chiede se a tutto questo non si poteva pensare prima. “Personalmente l’ho fatto presente a Roma, ma il Ministero mi ha imposto quel Prefetto e ora sono stato io a imporre al Ministero un commissario locale”.5
Resta fino ad oggi un mistero come mai un Commissario del Governo come Giustino Di Santo, che per cinque anni ha assolto il suo compito con diplomazia e attenzione, abbia voluto “suicidarsi” con una dichiarazione che nessun ministro potrebbe lasciar correre. La risposta arriva infatti la sera del giorno dopo, quando il Consiglio dei Ministri decide la “messa a disposizione” del Prefetto Di Santo. E resta un mistero, nonostante tutto, anche la ragione per la quale il Commissario del Governo ha rimosso il Commissario straordinario. Se dobbiamo dar credito alle sue parole, un motivo o una serie di motivi ci devono pur essere stati e per giunta di una certa gravità, altrimenti un funzionario del governo non mette a repentaglio la sua carriera sconfessando i suoi superiori. D'altra parte, nessuna critica aperta e neppure una voce accompagnano l'uscita di scena di Marcello Forestiere, il quale non si comprende bene di cosa venga incolpato. Ma al di là di questi aspetti, l'intera vicenda presenta una cruda morale. Riassumendo: è stato commissariato il capoluogo, è stato commissariato il Commissario straordinario, è stato commissariato il Commissario del Governo. Tutto nel giro di tre settimane. Così è stata trattata la maggiore città italiana dell'Alto Adige (e anche la città in cui abitano più sudtirolesi). Così sono state trattate le stesse rappresentanze locali del governo. Non è un bilancio brillante per l'autorità o l'autorevolezza dello stato.
Proprio nel giorno del siluramento del Commissario del Governo, il 14 luglio, la cronaca di mezza estate registra un evento apparentemente distante da tutta questa problematica. A Brunico, capoluogo della val Pusteria, è arrivata in ritiro estivo per due settimane l'Inter. È l'ultima trovata pubblicitaria per attirare turisti dal resto d’Italia, fossero anche i tifosi al seguito di una squadra di calcio. Per avere i neroazzurri sono stati sborsati 500.000 . Ne vale la pena, secondo il presidente dell'associazione turistica di Brunico Martin Huber: “Noi siamo molto soddisfatti che Inter è arrivata. Ce lo ringraziano tutti gli albergatori e anche i commercianti. È un affare per tutti quanti e speriamo che Inter prende ossigeno qui da noi e si prepara per il campionato nel migliore dei modi”.6
Perché associare il balletto dei commissari agli allenamenti dell'Inter in quel di Brunico? Perché i due fatti sono emblematici della condizione in cui si trovano gli altoatesini e i sudtirolesi. Questi ultimi badano al sodo, come si dice. Pensano a riempire gli alberghi, i ristoranti, i negozi, sponsorizzando il calcio e altri sport come il ciclismo, con il giro d'Italia che ormai fa regolarmente tappa in Alto Adige. Per farlo non disdegnano affatto di rivolgersi a un pubblico “popolare” come i tifosi del pallone e della bicicletta. Anche se magari, presi individualmente, molti sudtirolesi non coltivano particolare simpatia per gli italiani, pochi di essi sembrano veramente disposti a sacrificare i loro affari all'ideologia della separazione etnica, che viene loro così spesso rimproverata.7 C'è dell’opportunismo in questo atteggiamento, se vogliamo. Ma esso è anche prova di una certa stabilità e professionalità raggiunta dalla gestione degli interessi economici e sociali. Il potere politico non ostacola questo processo, al contrario lo difende e lo sostiene perché sa che di esso approfitta una parte assai consistente della società locale.
Anche gli altoatesini avrebbero bisogno di una classe politica capace di difendere e sostenere i loro interessi. Ad iniziare dal ruolo di Bolzano capoluogo, che non può essere trattato dal governo provinciale semplicemente come uno dei 116 comuni dell'Alto Adige. Ma per quanto ci si guardi attorno, non si vede dove e come i partiti politici italiani riescano a organizzare le spinte del corpo sociale. L'unica loro preoccupazione sembra essere quella di fare fronte contro il nemico tedesco, ovvero di scusarsi presso il loro elettorato del fatto di governare insieme ad esso. Quando si tratta di nominare un Commissario straordinario per il Comune di Bolzano e di affiancargli due Subcommissari, nessuno pensa di coinvolgere anche un sudtirolese: una mancanza sintomatica per chi “conosce bene” la situazione locale. Quando l'amministrazione statale ha dovuto svolgere un ruolo di supplenza laddove la politica non era riuscita a esprimere maggioranze in grado di governare, essa ha finito per sconfessare se stessa e i propri uomini. Su chi possono contare gli altoatesini?
Non servono grandi doti intellettuali per rilanciare i più banali luoghi comuni del nazionalismo altoatesino. Tuttavia, se di tale missione finisce per farsi carico uno scrittore affermato e stimato, che pubblica con editori importanti e le cui opere segnano tendenze interpretative generalmente condivise, l’operazione diventa più seria e preoccupante. È il caso del libro di Sebastiano Vassalli apparso nel 1985 con il titolo “Sangue e suolo. Viaggio tra gli italiani trasparenti”.1 All’epoca suscitò grande clamore e molta approvazione – esclusivamente da parte italiana. Quasi due decenni dopo, nel novembre del 2003, il quotidiano “Il Corriere dell’Alto Adige” chiede all’autore una nuova riflessione su quell’inchiesta. Vassalli risponde ribadendo la validità del suo lavoro e della tesi che esso presenta.2 Vale dunque la pena rileggerlo, quel libro, che si conferma una lezione illuminante sulla coscienza maturata nella nostra cultura politica nazionale e locale riguardo alla questione sudtirolese e anche alla questione altoatesina.
“Sangue e suolo” raccoglie tutte le argomentazioni e le osservazioni che stanno alla base dell’antagonismo coltivato dagli altoatesini nei confronti del sistema in cui vivono da ormai più di tre decenni. Intanto, c’è un contesto geografico che già dice tutto: “La regola qui sono le montagne che anche fisicamente chiudono gli orizzonti; è la chiusura intesa come categoria di pensiero e come modello sociale, dal “maso chiuso” alla società chiusa: è l’antica paura del montanaro per le cose nuove e diverse.”3 La morfologia di una regione rispecchia l’indole dei suoi abitanti, a dispetto della varietà delle culture montane, così come la fisionomia rispecchia il carattere della persona, a onore di Lombroso. Infatti l’assessore Franz Spögler è “tetragono”,4 mentre di Bruno Hosp si riferisce che “appena può, si veste da Schütze e che ha dei bellissimi stivaletti”.5 Ci sono, sì, sudtirolesi che hanno viaggiato e che sono culturalmente aperti ed evoluti. Ma nel loro insieme quella gente resta poco più che un branco di pecore, come l’autore mette bene in evidenza dopo avere assistito a una manifestazione elettorale della Volkspartei: “Il pubblico (forse cinquecento persone di entrambi i sessi e di tutte le età) educatamente applaude quando deve applaudire, ride quando deve ridere e si rattrista quando deve rattristarsi”.6 Ovvio che un quadro del genere non prometta nulla di buono. “C’è, da parte tedesca, un diffuso atteggiamento xenofobo che, data la specificità della situazione locale, si manifesta soprattutto come fobia di questi 123.695 italiani residenti… “.7Mai sospettato l'esistenza di una questione sudtirolese? Mai sentito parlare del fatto che l'Italia si era impegnata, in un trattato internazionale, a concedere un’ampia autonomia alla minoranza tedesca residente in provincia di Bolzano? Mai! Il sudtirolesi sono xenofobi in sé, oggi nei confronti degli italiani, domani di chiunque altro.
Alla parola xenofobo, destinata a grande fortuna nella pubblicistica italiana (probabilmente perché consente di fare i conti con fenomeni molto complessi in modo molto sbrigativo), si affianca l’immancabile apartheid.8 Il segretario provinciale della DC Franco Ravagnani ne illustra sconsolato la topografia. “Questa di fronte è una scuola media. Da quell’ingresso entrano gli italiani e da quell’altro laggiù entrano i tedeschi. Il campo sportivo a destra è degli italiani, quello a sinistra è dei tedeschi. In mezzo c’è una rete metallica.”9 Il tutto avviene alla finestra del suo ufficio alla scuola professionale in via Santa Geltrude, a Bolzano, rifugio a partire dagli anni Settanta di decine di intellettuali italiani dichiaratamente favorevoli alla convivenza tra i gruppi e regolarmente monolingui. Un signore sulla quarantina vuole restare anonimo perché “qui c’è di fatto il fascismo. (…) Vivere qui è come sognare un brutto sogno, uno di quei sogni dove tutto è bloccato, chiuso, senza uscite. Io ci sto da una vita, ma se ne avessi la possibilità me ne andrei subito, domani”.10 Un altro signore, intervistato al telefono: “Qui si vive in una situazione vergognosa. Emarginati e oppressi sul nostro stesso territorio. (…) Nemmeno in Sudafrica esistono situazioni simili a quelle di qui”.11 Conforta questa analisi il gioco di parole proposto da Maurizio Faccin, socio del circolo culturale Alta Pusteria. “I tedeschi di qua sono abbastanza sociali, cioè se hai bisogno d’aiuto non te lo negano, ma sono poco socievoli. Culturalmente, il loro limite più vistoso è l’incapacità di uscire da questa dimensione altoatesina, di capire il mondo”.12 La rassegna continua con una serie di giudizi sulla Volkspartei. “La logica della Volkspartei è un sistema di pensiero anacronistico (nel senso che certamente viene prima della Riforma, prima dell’Enciclopedia, prima della Dichiarazione dei diritti dell’uomo, prima del Manifesto di Marx) ma autosufficiente e completo in ogni sua parte”.13 Sergio Esposito, maestro neodiplomato, ricorre a una prosa più sbrigativa, che certamente sarà stata d'insegnamento ai suoi scolari. “La Volkspartei ai giovani gli fa il lavaggio del cervello, li riduce ad automi che seguono le direttive del partito nelle elezioni e in tutto”.14 Il giornalista Fausto Ruggera dà prova di conoscere bene la storia politica: “La Volkspartei ha tutti i connotati del partito nazionalsocialista o fascista, anche nella struttura e nel nome: partito di raccolta, fascio”.15 Il Consigliere provinciale del PCI/KPI Gaetano D’Ambrosio sentenzia: “La Volkspartei agisce nel senso di un effettivo impoverimento culturale della popolazione di lingua tedesca… .”16 E qui si percepisce un sincero rattristamento per un popolo che ha commesso l’errore di non scegliere il comunismo per emanciparsi.
Inutilmente si cercherà nelle pagine di Vassalli un ragionamento argomentato intorno a provvedimenti come il “bilinguismo” o la “proporzionale”, vere e proprie ossessioni per lui come per la maggioranza degli altoatesini. Egli non si domanda se sia legittimo, da parte sudtirolese (ed eventualmente anche da parte altoatesina), chiedere che ogni cittadino possa parlare la propria lingua nei rapporti con la pubblica amministrazione e tanto meno come sia possibile garantire tale diritto se non adottando per i dipendenti della pubblica amministrazione il requisito della conoscenza delle due lingue maggiormente parlate in provincia di Bolzano. Non si domanda neppure in base a quale condizione storica sia stata chiesta e ottenuta una misura come la “proporzionale”, ovvero se esista una soluzione migliore per rimediare all’estromissione dei sudtirolesi da tutti gli uffici e da tutti i benefici pubblici che lo Stato italiano aveva avviato durante il fascismo e i cui effetti erano ancora evidenti nella società di allora. Tutte questioni delle quali Vassalli non si interessa. Ciò che egli sembra chiedere al proprio pensiero non è di indagare la realtà, ma di allineare parole e concetti in modo persuasivo e brillante. Gli basta che le parole producano effetto per essere sicuro che esse corrispondono a dei dati di fatto. Così la copertina dell’annuario dell’Alto Adige, che raffigura il profilo geografico della provincia di Bolzano con sovrapposta una freccia che ruota su se stessa, evoca nel Nostro una colta metafora nietzschiana: “È l’immagine dell’eterno ritorno. Forse – penso – il disegnatore voleva esprimere dinamismo, sviluppo, crescita. Invece ha rappresentato una situazione bloccata, senza sbocchi”.17 Se la sintesi della questione sudtirolese sta nella grafica della copertina di un libro, non si ha difficoltà a convincersi che la storia e la natura di un popolo possano esprimersi in una cartolina, reperita dall'autore “…che rappresenta la visita di un approssimativo zio Adolfo a una famiglia in costume tirolese. Compaiono in fotografia, da sinistra a destra, persone di tre generazioni: c’è il nonno che assomiglia all’imperatore Francesco Giuseppe, c’è il padre che assomiglia al maresciallo Hermann Göring, ci sono i figli ventenni – maschio e femmina – che assomigliano ai giovani interpreti dei film nazisti sulla razza. La madre non c’è, dev’essere in cucina”.18
Tutto questo, dunque, è l’altro19