Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone vive o defunte, luoghi o fatti reali è puramente causale.
Degli stessi autori:
Spiccioli per il latte. Il primo caso del commissario Kluftinger
Titolo originale: Seegrund
© Piper Verlag GmbH, München 2006
© 2019 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
Prima edizione italiana: gennaio 2019
Impaginazione: Rossella Di Palma
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
ISBN 978-3-96041-440-7
Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Via Amedeo Avogadro 62
00146 Roma
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MISTERO IN FONDO AL LAGO
Il commissario Kluftinger al castello di Ludwig
Traduzione di Anna Carbone
“Oh dear, how marvellous, just like in Disneyland!”
L’inglese di Kluftinger non era niente di che, ma gli bastò per capire la frase urlata dall’anziana signora in tenuta d’ordinanza: macchina fotografica al collo, cappellino da baseball e occhiali da sole.
“Hai sentito? È come essere a Disneyland. Optimus! Prima autobus pieni zeppi di giapponesi sorridenti che scattano una foto dopo l’altra e adesso questo. Vieni, Erika, andiamocene!”
Erano le undici e mezzo e Kluftinger si trovava con la moglie a Füssen, alla biglietteria dei castelli reali di Hohenschwangau e Neuschwanstein. Il suo umore lasciava parecchio a desiderare, e non soltanto perché dei castelli bavaresi da favola non gliene poteva importare di meno. Anche la sua simpatia per le orde di turisti schiamazzanti che da tutto il mondo si riversavano in Algovia in torrenti irrefrenabili aveva dei limiti. Ma d’altro canto aveva acconsentito ad andare a prendere il figlio Markus e la sua nuova ragazza lì a Füssen. I due giovani erano in arrivo per le vacanze di Natale dopo una tappa da amici. Venivano per trascorrere la vigilia con i Kluftinger, e la cosa aveva messo Erika in fibrillazione. Era chiaro che con quella ragazza Markus faceva sul serio, altrimenti non l’avrebbe presentata ai suoi dopo soli tre mesi. La maggior parte di quelle che l’avevano preceduta, un numero notevole, non le aveva neppure mai viste!
“Adesso non metterti a brontolare come al solito! Per essere inverno, oggi è una giornata davvero spettacolare. Per una volta che mio figlio viene a casa… E sono così ansiosa di conoscere Miki!”
“Chi?”
“Miki, la nuova ragazza di Markus!”
“Com’è che si chiama? Mickey? Come Mickey Mouse? Con Disneyland calza a pennello! Ma il nome vero quale sarebbe?”
“Markus la chiama sempre soltanto Miki. Sarà Michaela… So solo che studia anche lei all’università, a Erlangen, e che ha ventidue anni. E c’è anche una sorpresa che non mi ha voluto dire per telefono.”
“Oh, davvero? E che cosa può essere, forse verrà con il suo cane Pluto?”
“Dai, adesso smettila, altrimenti quella riparte con il primo treno!”
“Ah, sì? C’è un diretto Füssen-Topolinia?”
A quel punto Erika decise di ignorarlo. Sapeva per esperienza che quella era la tattica migliore per evitare che il marito andasse avanti per tutto il giorno a ripetere la stessa battuta fiacca in diverse varianti. Vedendo che le sue frecciatine non ricevevano più risposta, il commissario finì per mettere il broncio.
“E allora, ci vogliamo dare una mossa?”
Kluftinger si voltò. Dall’alto della cassetta di una carrozza tirata da due pony con il campanello al collo, un uomo lo guardava seccato indicandogli con la mano di togliersi dai piedi. Il commissario della polizia criminale di Kempten si scostò di lato facendogli teatralmente segno di passare. Il gruppo di turisti giapponesi seduto all’interno, scambiando quel gesto ironico per un’espressione dell’ospitalità algoviana, si sbracciò estatico.
A Kluftinger sarebbe piaciuto sapere quanto costava un giro del genere. Dieci euro, o magari addirittura venti? Da buon poliziotto, si chiese se non si potesse ipotizzare un reato di usura e strozzinaggio, ma fu distratto dalla vista di un cavallo che mollava un bel regalino proprio davanti a un negozio di souvenir. Di norma non nutriva un particolare interesse per gli equini, ma in quel momento provò una certa affinità spirituale con l’animale.
Perplesso, vide poi decine di giapponesi scattarsi a vicenda fotografie davanti a un banalissimo cartello su cui erano raffigurati semplicemente lo stemma di Neuschwanstein e l’indicazione per la camminata di mezz’ora che portava al castello. Per lui quel popolo era e sarebbe rimasto per sempre un mistero.
A qualche metro dal cartello notò una giovane giapponesina che non aveva macchina fotografica e neppure sembrava far parte di qualche gruppo organizzato. Se ne stava in mezzo a quel flusso vorticoso di turisti come un ciottolo nell’acqua di un torrente, e quando chiuse gli occhi per godersi il sole del mattino, Kluftinger pensò che era davvero molto attraente, per essere un’asiatica. Quando la ragazza cominciò a rovistare nello zainetto di cuoio, gli occhiali da sole le scivolarono dai capelli nerissimi e caddero a terra. Lei non sembrò accorgersi di averli persi. Kluftinger esitò. Era il caso di intromettersi? Considerato che quella giovane donna non si comportava per niente da turista, tanto valeva che per una volta si mostrasse cavaliere. Perciò si riscosse, andò verso di lei e le porse gli occhiali con un inchino e un sorriso imbarazzato.
“Tenga, guardi. Caduti. Your occhiali for sun, Miss. Prego!”
Prima ancora che la donna avesse il tempo di rispondere, Kluftinger udì una voce familiare alle sue spalle.
“Oh, papà, bene, vedo che avete già fatto conoscenza!”
Il commissario si voltò e scoccò al figlio un’occhiata interrogativa. Era così confuso che dimenticò persino di salutarlo.
“E la mamma dov’è?” chiese Markus con un gran sorriso.
Kluftinger indicò Erika senza capire.
“In che senso ‘avete già fatto conoscenza’?” domandò perplesso, ma il figlio era già tra le calorosissime braccia della madre. Mentre il commissario rimuginava ancora sulle parole di Markus, dietro di lui trillò una voce squillante.
“Sì, che coincidenza, vero? Posso presentarmi? Sono Yumiko. E molte grazie per gli occhiali da sole, signor Kluftinger. Non mi ero accorta di averli persi.”
La bella asiatica lo guardava con un sorriso luminoso, in attesa di una reazione.
Solo allora, un po’ alla volta, nel commissario si fece strada la consapevolezza che quella che aveva davanti doveva essere la nuova ragazza di Markus. Parlava tedesco senza il minimo accento, notò subito Kluftinger. Yumiko… Miki: ecco da dove veniva il nomignolo! Ma perché diavolo Markus non li aveva avvertiti? Almeno adesso non si sarebbe ritrovato a guardarla così a disagio.
La ragazza cominciò a mostrarsi un po’ incerta e lui comprese di dover dire qualcosa. “Io… piacere, sì… sono il papà… signorina,” gracchiò imbarazzato. Aveva le guance in fiamme. Si rendeva conto che il suo gesto di prima sarebbe rimasto per sempre negli annali di famiglia, uno di quegli aneddoti che si raccontano per ravvivare un po’ una conversazione che langue facendosi due risate a spese del solito babbeo.
“La prego, mi chiami Miki, lo fanno tutti.” Dopo l’approccio maldestro del commissario, quel tedesco perfetto sembrava volerlo schernire.
Vedendo che il marito si era trasformato in una statua di sale, Erika gli passò davanti e abbracciò la ragazza come se fosse stata la sua migliore amica. Sua moglie era decisamente più aperta ed espansiva di lui, e la maggior parte della gente l’avrebbe definita anche più cordiale. Non sembrava minimamente a disagio per il fatto che Miki fosse asiatica, e se anche lo era, non lo dava a vedere nel modo più assoluto. O forse ne era già al corrente e aveva tenuto il marito all’oscuro? Lui non aveva mica niente contro gli stranieri, Cristo santo, proprio niente! Certo, davanti alle culture diverse dalla sua era sempre un po’ restio, però trovava gli altri stili di vita decisamente interessanti e ovviamente li rispettava, non c’era bisogno di dirlo. Anzi, di tanto in tanto alla televisione guardava persino i reportage sull’estero.
Il suo interesse però si limitava al ruolo di osservatore. Se per caso – in genere su pressione della moglie – gli toccava avere contatti in prima persona con una cultura diversa, allora in lui affiorava la diffidenza. Ogni volta che Erika cercava di introdurre in casa qualche innovazione esterofila, che fossero cibi d’importazione, frutti esotici o cassette per lo studio di una lingua, lui entrava in sciopero.
“Su, dai, andiamo!”
Tirandolo per la manica, Erika lo riscosse dai suoi pensieri. Solo allora il commissario si rese conto di essere rimasto imbambolato e si sentì avvampare.
“Dove si va?” chiese con voce un po’ imbarazzata. Da quel momento, decise, si sarebbe comportato nella maniera più normale possibile.
“E dove vuoi andare? Al castello, no?” rise sua moglie.
“Beh, forse per oggi è meglio lasciar perdere,” ribatté lui occhieggiando la folla che serpeggiava fra le transenne davanti alle casse. “Guardate un po’ quanta gente. I soliti giapponesi!”
Fu come quando, dopo una caduta, un bambino piccolo impiega qualche istante per rendersi conto del dolore: nel giro di un paio di secondi il cervello di Kluftinger elaborò le parole appena pronunciate, e a quel punto la vergogna lo investì come una vampata di fuoco. Erika lo guardò inorridita, Markus lo fissò con gli occhi ridotti a due fessure. Soltanto Yumiko scoppiò in una bella risata.
“Lo so, lo so! Ogni tanto ho la sensazione che i miei connazionali corrano continuamente per paura di vedersi portare via le attrazioni turistiche da sotto il naso. E vogliamo parlare di tutte quelle foto orrende che non fanno altro che scattare? Mi chiedo sempre chi le guarderà, una volta a casa.”
Kluftinger sentì che il suo cuore riprendeva a battere a un ritmo normale. Quella ragazza sembrava davvero in gamba, e ciò che aveva detto dei suoi connazionali dimostrava una consapevolezza davvero ammirevole. Era esattamente quello che pensava anche lui! Stava appunto per dirsi d’accordo quando il figlio lo precedette: “Beh, d’altra parte non è che i tedeschi quando vanno all’estero siano tanto meglio. Alle sei del mattino sono già sulla loro sdraio a esporre la pancia bianchiccia al sole. Che vadano in Italia, in Spagna o in Turchia, per loro è indifferente, credo che alcuni non le distinguano neppure una dall’altra. E vogliamo parlare della mentalità? Per loro cucina tipica vuol dire tipica della Germania: würstel, Jägermeister, birra e Schnitzel!” Con il suo radar infallibile, Erika fiutò subito il germe di un conflitto padre-figlio e per non turbare l’armonia con uno scontro generazionale proprio sotto Natale, tagliò corto con un bel “Le pecore nere sono dappertutto!” Allo stesso tempo scoccò al marito un’occhiata ammonitrice. Yumiko sembrava l’unica a non essersela presa per l’osservazione del commissario.
Ogni tentativo di approfondire l’argomento avrebbe ripristinato la ben nota alleanza madre-figlio, Kluftinger lo sapeva benissimo, perciò cedette. “Volevo soltanto dire che con una coda così lunga sprecheremmo tutta la giornata. Però se voi… cioè… se Miki…”
“Hai ragione, papà. Miki ha già detto che non ci tiene particolarmente a vedere il castello. Pensa un po’, una giapponese indifferente ai paesaggi da cartolina delle Alpi!”
“E se andassimo al Forggensee?” propose a quel punto Kluftinger sforzandosi di salvare la situazione e di presentarsi come il perfetto cicerone. Con sua grande sorpresa, l’idea venne subito accolta con favore.
***
Dieci minuti dopo erano tutti nella vecchia Passat del commissario, diretti verso Füssen. Mentre andavano alla macchina, Kluftinger aveva portato il bagaglio di Yumiko senza che nessuno glielo chiedesse, un gesto che personalmente considerava una cortesia da uomo di mondo e che di certo, immaginava, gli avrebbe fruttato qualche punto con sua moglie. Erika invece parve dare quella gentilezza per scontata.
“Tu lo sapevi?”
“Eh?”
“Tu lo sapevi che era giapponese?” chiese Kluftinger chinandosi sulla moglie mentre alzava il volume della radio.
“Non ti capisco. Se sapevo che cosa?” rispose lei a voce più alta.
Markus e Yumiko sollevarono lo sguardo.
“Se… cioè… volevo sapere se sapevi che sul Forggensee c’è un battello.”
Markus ed Erika lo guardarono perplessi. Lo sapevano tutti.
“Sì, Yumiko, è davvero uno dei laghi più belli, il Forggensee,” disse il commissario, orgoglioso. “E da alcuni anni c’è anche un teatro dove mettono in scena uno spettacolo. Sempre lo stesso, il Ludwig-Musical. Il teatro lo hanno costruito apposta per questo. Incredibile, non trovi?”
Yumiko ascoltava attenta.
“Sai, un tempo in Baviera avevamo un re che costruì diversi castelli, tra cui anche quello di Neuschwanstein. E il musical racconta appunto la storia di questo re. Lo chiamano anche Märchenkönig, il re delle fiabe.”
Yumiko rispose entusiasta: “Allora le interesserà di sicuro la tesi di Frank, l’amico di Markus. Qual era il titolo, esattamente? Ah, sì: ‘Analisi dei fatti storici relativi a Ludwig II di Baviera e del loro adattamento storico-drammaturgico’. Giusto?”
Markus annuì.
Kluftinger la guardò attonito nello specchietto e dopo una pausa disse: “Sì, Markus, devi farmela assolutamente leggere. È un argomento… che mi appassiona già da un po’.”
Seguì un silenzio che il commissario non riuscì a sopportare. “Tra l’altro lo chiamano re delle fiabe perché tutto ciò che costruiva era sempre pieno di svolazzi, proprio come nelle fiabe, appunto. E il re veniva spesso qui al Forggensee. Anzi, nel lago ci è anche morto. È annegato in circostanze misteriose, era presente soltanto il suo medico personale, il dottor Gulden. Non si hanno certezze al riguardo, ma è possibile che il dottore ci abbia messo lo zampino.” Kluftinger era sempre più calato nel suo ruolo di cicerone.
“Il medico si chiamava Gudden e il lago era quello di Starnberg. Allora il Forggensee non esisteva ancora. Però il resto è più o meno giusto, vero papà?”
“Chissà perché ti ho fatto studiare!” borbottò lui di rimando.
“Ieri Frank non diceva che anche il medico è affogato?” chiese Yumiko con sincero interesse.
Kluftinger cominciò a sudare. “Sì, è un fatto risaputo. Comunque è un lago davvero romantico. Da cartolina. D’estate ci saremmo potuti venire in barca, così avremmo avuto una visuale fantastica sui castelli reali. Adesso forse sarà ghiacciato.” Era irrefrenabile.
Finalmente l’auto svoltò nel parcheggio vicino all’ormeggio delle barche. “Davvero un gioiello… oh!”
“Oh, a dir la verità non mi pare così bello, signor Kluftinger,” disse piano Yumiko. “Ma cosa è successo?” chiese, temendo di essere testimone di una piccola catastrofe ambientale.
Markus non riuscì a trattenere una risata, però preferì non dire nulla e vedere come se la sarebbe cavata il padre.
Davanti a loro si stendeva una squallida e immensa superficie grigio-marrone con qualche piccola pozza ricoperta da un sottile strato di ghiaccio.
“Cristo santo! Non ci avevo pensato!”
“È grave?” chiese Yumiko. A quel punto Markus non si trattenne più. “Il Forggensee è un invaso artificiale che tutti gli inverni viene svuotato!”
Tutti si unirono alla risata, soltanto Kluftinger, al volante, rimase con il volto paonazzo a guardare quello che in estate era davvero un lago da favola.
“Beh, allora andiamocene a casa e amen, staremo bene anche lì,” disse stizzito, facendo inversione.
A ogni chilometro il suo umore peggiorava. Detestava i viaggi a vuoto. Il solo pensiero della benzina sprecata… Per non parlare dell’usura…
Anche se a dire la verità negli ultimi tempi aveva iniziato a risparmiare, perché faceva il pieno con un biodiesel più economico. Non era il più adatto per la sua vecchia Passat, ma ormai l’auto aveva vent’anni, perciò l’idea che a lungo andare un carburante più scadente potesse provocare danni al motore non lo preoccupava. E comunque, quelli erano allarmismi lanciati da una cospirazione di officine, produttori di automobili, politici, industriali e sceicchi del petrolio cui non si doveva dare troppo credito. Alla fin fine l’argomento che contava era uno soltanto: l’olio di colza veniva dieci centesimi di meno.
“Su, e dai, ormai che siamo qui tanto vale che ci facciamo una passeggiatina,” insistette Erika. “Oppure andiamo in qualche posto carino. Potremmo andare sul Tegelberg, con la cabinovia.”
“No, Yumiko soffre un po’ di vertigini, non va bene,” si oppose Markus.
Kluftinger tornò a respirare. Quattro biglietti per la cabinovia del Tegelberg: Yumiko non poteva mica costargli lo stipendio di una settimana già al primo giorno di visita!
“Beh, ma tu hai fatto una torta, sarebbe una sciocchezza fermarsi a mangiare per strada. Perché non facciamo semplicemente una scappata a… all’Alatsee?” Kluftinger si rese conto con sollievo di aver fatto una proposta che poteva andare bene a tutti.
Il viaggio per il laghetto pittoresco proseguì senza ulteriori intoppi, a parte il momento in cui Kluftinger se la prese con una Suzuki che secondo lui andava troppo piano e urlò dietro al conducente: “E su, e muoviti un po’ con quel risciò!” Per riempire il silenzio che seguì, il commissario non seppe fare di meglio che dichiarare apertamente la propria soddisfazione per aver messo i mutandoni di lana con quel freddo. Quindi alzò il volume della radio e così non sentì Markus sussurrare alla ragazza, dopo averla presa sottobraccio: “Se dopo aver conosciuto i miei non mi pianti, deve essere vero amore.”
***
La “camminata impegnativa” che Kluftinger aveva annunciato in macchina si rivelò essere una comoda passeggiata di neppure mezz’ora su un tratto asfaltato in mezzo al bosco. Durante il viaggio il commissario aveva illustrato a Yumiko i possibili pericoli alpini in inverno, avvisandola che in quella stagione anche i tratti pianeggianti non andavano sottovalutati. Quando affrontarono una breve salita, Kluftinger si ritrovò con il fiato talmente corto da non riuscire nemmeno a chiacchierare, ma Yumiko si guardò bene dal lasciar trapelare la propria ilarità.
“Beh, la sapete una cosa? Dopo questa piccola escursione in montagna mi farebbe davvero piacere invitarvi a mangiare un boccone!” annunciò infine il commissario. Ma più che dalla generosità, l’invito era motivato dal fatto che nel frattempo il suo appetito era diventato vera e propria fame da lupi. Indicò una vecchia locanda che si intravedeva fra i rami spogli degli alberi in fondo al parcheggio davanti al lago.
Una volta giunti lì, tuttavia, i quattro constatarono di dover rinunciare allo spuntino per il momento: il locale apriva solo alle due. Rassegnati, decisero quindi di fare ancora un giro attorno al lago.
L’Alatsee era un laghetto idilliaco in una piccola conca circondata da un fitto bosco. Sul lato sudorientale, oltre gli alberi, si stagliava maestosa la vetta del Säuling. Era la giornata perfetta per quelle fotografie stucchevoli ma pur sempre d’effetto che campeggiano sui calendari regalati da banche, farmacie e distributori di benzina, pensò Kluftinger: il laghetto di montagna scintillava al sole che splendeva in un cielo completamente sgombro di nubi.
Dai rami degli alberi cadeva su di loro una pioggia continua di piccoli fiocchi luccicanti. Sotto i piedi la neve scricchiolava, l’aria era tersa e limpida.
“Meraviglioso, vero? Quassù non c’è neppure un turista,” si rallegrò Kluftinger. Era orgoglioso. Orgoglioso della “sua” Algovia, così bella che a volte lui stesso si sentiva un turista pieno di ammirazione. E orgoglioso di poterla presentare quel giorno a un’ospite straniera.
“Immagino che qui sia davvero un bianco Natale” disse Yumiko, visibilmente affascinata alla vista di quel paesaggio pittoresco. Senza aspettare risposta, proseguì di slancio: “Speriamo che la neve non si sciolga. In Giappone, dove abitiamo noi, a Natale la neve non c’è mai.”
Kluftinger stava per risponderle che lì i bianchi Natali erano la regola, quando vide lo sguardo della ragazza irrigidirsi e fissare a occhi sbarrati un punto alle sue spalle.
Evidentemente non è poi così interessata a come stanno le cose qui da noi, pensò stizzito. Stava per voltarsi dall’altra parte quando la vide serrare talmente le labbra già sottili da farle quasi scomparire. Miki era bianca come un cencio. Subito dopo cominciò a tremarle la mascella. A Kluftinger venne la pelle d’oca: qualcosa doveva aver messo una paura del diavolo alla ragazza di suo figlio.
Lentamente si girò nella direzione in cui guardava Yumiko, chiedendosi che cosa mai potesse aver spaventato a quel modo la giapponesina, su quello sfondo idilliaco di un lago algoviano di montagna. Cercò di prepararsi a quello che stava per vedere: forse uno scoiattolo morto? O magari un capriolo? Ma in qualche modo immaginava che l’orrore negli occhi scuri della giovane donna dovesse essere provocato da qualcosa di ben peggiore.
E poi lo vide anche lui. Fu come se la temperatura fosse calata repentinamente. Il suo sguardo si irrigidì quanto quello di Yumiko. Deglutì, per un attimo chiuse gli occhi, poi li riaprì: quello che vedeva era reale. A una decina di metri da lui, a pochi passi dalla riva del lago, sulla neve, giaceva un uomo. Era steso a pancia in giù, le braccia scostate dal corpo, e indossava un completo nero molto aderente. Non era particolarmente alto, però sembrava muscoloso. La testa era girata e il commissario non riusciva a vederne il viso. I capelli biondo cenere aderivano umidi al cranio del giovane, ma l’attenzione di Kluftinger e di Yumiko in quel momento era attratta da un altro dettaglio: per circa due metri attorno al corpo la neve era tinta di rosso scuro. L’uomo sembrava immerso in un lago di sangue di dimensioni incredibili.
“Merda,” sussurrò Yumiko strappando Kluftinger dal suo stato di torpore.
Il commissario si voltò verso di lei e le si parò davanti.
“Non guardare,” le disse, ma lei inclinò la testa e guardò comunque. Allora lui la prese goffamente per le spalle e la fece girare per impedirle quella vista macabra.
“Beh, vedo che cominciate a intendervela…” Markus ed Erika li avevano raggiunti. Il ragazzo ammutolì, poi aprì la bocca e si voltò come un lampo verso la madre.
“No, mamma! Non guardare!”
Dalla voce del figlio la donna capì che diceva sul serio, ma azzardò comunque un’occhiata e rimase a bocca aperta, con gli occhi sbarrati. Spaventata a morte, accostò il volto alla spalla di Markus e cominciò a tremare.
Per un brevissimo istante nessuno dei quattro si mosse. Da lontano dovevano sembrare due coppiette di innamorati che approfittavano di quella splendida giornata per una passeggiata romantica.
Solo dopo qualche secondo, in cui non si sentì altro che il loro ansimare agitato, Markus chiese nel silenzio generale: “Per l’amor del cielo, papà, ma che cosa è successo?”
“Tornate subito alla macchina, questa è una faccenda seria!” Il commissario, finalmente ripresosi, spinse Yumiko verso il figlio e pian piano si avvicinò al corpo senza vita. Fu allora che capì che il completo nero dell’uomo era una muta da sub.
Vedendo da vicino le dimensioni della pozza rossa gli si rizzarono i peli sulla nuca. Quell’uomo doveva essersi completamente dissanguato. Si voltò verso Markus, che lo guardava con espressione interrogativa.
“È…” Prima di proseguire dovette raschiarsi la gola. “È morto. Per l’emorragia e per il freddo…”
A quel punto Erika scoppiò in singhiozzi. Solo in quel momento Kluftinger si rese conto di quanto quella scena dovesse essere spaventosa per le due donne.
Suo figlio, che studiava psicologia e si era specializzato in psichiatria forense e criminologia, aveva già avuto occasione di vedere un paio di morti, ma Erika e Yumiko? Tornò in fretta da loro e senza fiato ordinò: “Per piacere, Markus, adesso portale via. Erika, sta’ tranquilla, è…” In fretta cercò di pensare qualcosa che rendesse la situazione più sopportabile, ma non gli venne in mente niente.
“Andrà tutto bene,” riuscì a dire soltanto, e già mentre pronunciava quelle parole si rese conto di quanto fossero assurde.
Niente sarebbe andato bene. Una volta visto un cadavere, e per di più in uno stato così orribile, qualcosa cambiava per sempre. Lo aveva sperimentato di persona: erano soprattutto le immagini a rimanere, a riaffiorare nei momenti più impossibili; a quelle non c’era verso di sfuggire. E c’era molto di più. Non avrebbe voluto che Erika facesse un’esperienza del genere, ma ormai era troppo tardi.
Tirò fuori di tasca il cellulare, digitò un numero e portò il telefonino all’orecchio. Non sentendo nulla, guardò il display e imprecò: “Cristo santo, non c’è campo! Ma che cosa li inventano a fare questi affari?” Quindi rimise in tasca il cellulare, rifletté rapidamente e infine disse con calma, ma con una durezza che Markus non gli aveva mai sentito prima: “Adesso tornate subito tutti e tre alla locanda e chiamate il proprietario. Telefonate al commissariato a Kempten con la rete fissa e dite che mandino qui la scientifica. Willi Renn, se c’è. Capito?”
Quando vide che Markus non accennava a muoversi, insistette: “Subito, hai capito? E ordina qualcosa di caldo da bere per tua madre e la tua ragazza, potrebbe volerci un po’.”
Lentamente Markus e le due donne si incamminarono. Kluftinger tornò dal cadavere soltanto quando i tre furono scomparsi alla sua vista. Adesso era solo con il corpo esanime. Aveva la pelle d’oca sulle braccia. Per un attimo ebbe la tentazione di seguirli e di aspettare semplicemente l’arrivo dei colleghi, ma poi si riprese. Doveva rimanere sul posto e assicurarsi che nessuno si avvicinasse al corpo. E doveva fare in modo che non venissero cancellate altre tracce, altrimenti Willi sarebbe andato su tutte le furie, e ne avrebbe avuto tutte le ragioni.
Willi! Kluftinger si augurò che il responsabile della scientifica fosse disponibile. Per il commissario quella era una situazione del tutto insolita, in genere lui era praticamente l’ultimo ad arrivare sul luogo del delitto, e a quel punto trovava già un gran fervore d’attività: lampeggianti blu, gente che correva di qua e di là, un gran vociare. Era quella l’atmosfera di una scena del crimine come la conosceva lui, non quel silenzio spettrale.
Ovviamente se ne lamentava sempre, brontolava che con tutta quella confusione non riusciva a concentrarsi, che con quel fracasso non si poteva lavorare e che quella non era mica un’osteria. Soltanto in quel momento, però, capì che erano proprio quei rituali a dargli una certa sicurezza, ad aiutarlo a tenere un po’ più sotto controllo il disagio che la vista di un cadavere non mancava di procurargli. Adesso invece era solo, e il corpo senza vita vicino a lui glielo faceva avvertire in maniera netta.
Girò cautamente la testa in direzione del cadavere. Nonostante il freddo che trasformava il fiato in nuvolette di vapore bianco, a un tratto avvertì un caldo fastidioso. Il sangue che aveva arrossato in quel modo la neve doveva provenire da una ferita enorme. Sentì la bile risalirgli in gola. Si voltò e cominciò a fischiettare qualche nota, ma subito si rese conto di essere pietoso e tornò a serrare le labbra.
Santissimo Dio del cielo, sei un commissario di polizia criminale, riprenditi, si rimproverò silenziosamente. Sarebbe stato davvero imbarazzante dover rispondere alle domande dei colleghi con una serie di “Non so. Non ho visto”.
Si avvicinò al corpo di qualche passo per osservarlo meglio. La sua mente lucida riprese il controllo della situazione scacciando il malessere che lo aveva paralizzato poco prima.
“Che cosa ti è successo?” chiese a mezza voce. Era una sua vecchia abitudine, quella di portare avanti conversazioni immaginarie sulla scena del crimine. “Mi aiuta a fare ordine nei pensieri,” diceva sempre quando glielo facevano notare.
Il suo sguardo andò dal corpo all’acqua. La muta scintillava al sole. Soltanto allora vide che l’uomo non indossava la maschera e che lì intorno non c’era una bombola dell’ossigeno. Soffocò un’imprecazione: avrebbe dovuto notare subito dettagli di quell’importanza.
“Va bene, allora volevi andare a fare un’immersione. In pieno inverno? Devi aver avuto un motivo molto speciale. E di sicuro non pensavi di entrare in acqua senza maschera e bombola, immagino.” La domanda che stava in cima ai pensieri di Kluftinger era: perché quell’uomo aveva perso tanto sangue? Non poteva certo essersi procurato una ferita simile in acqua, altrimenti non sarebbe riuscito ad arrivare fino a riva. Ma se fosse stato ferito a terra, avrebbe dovuto lasciare una scia di macchie di sangue fino alla sua posizione attuale, o meglio, avrebbero dovuto esserci tracce che arrivavano fino a lì e soprattutto che si allontanavano. Perciò doveva essere arrivato direttamente dal lago, perché lì c’era soltanto quel cerchio rosso indescrivibile in mezzo alla neve candida e intatta.
Chiuse gli occhi. E vide. Era paradossale, ma con lui funzionava sempre: quando chiudeva gli occhi, gli rimaneva impressa un’immagine che di solito diceva più di quanto non riuscisse a vedere a occhi aperti. Nel suo quadro mentale poteva far sparire o riemergere oggetti a piacere, spostarli e risistemarli. Riaprì gli occhi. Non si era sbagliato, c’era davvero qualcosa. Le braccia dell’uomo erano scostate dal corpo, i polpastrelli della mano sinistra erano fuori dal lago di sangue. E in quel punto, proprio vicino alla mano, parzialmente nascosto, c’era un segno che ora Kluftinger vedeva chiaramente. Spiccava sulla neve, vermiglio e grosso come un piatto. Era una lettera? Una figura? Un simbolo? Era stato tracciato con mano tremante e sembrava antico e sinistro, anche se Kluftinger non avrebbe saputo dire perché.
La mano destra della vittima era piegata in uno strano angolo, sembrava rotta o slogata. Se era destrorso, perlomeno si sarebbe spiegato quel tratteggio così maldestro, visto che aveva dovuto usare la sinistra. Inoltre doveva averlo tracciato nella neve mentre lottava con la morte: un cerchio da cui partivano tre lineette con le estremità piegate.
Kluftinger rabbrividì all’idea che quello potesse essere l’ultimo messaggio che l’uomo morente aveva voluto lasciare ai posteri, forse la chiave di quel… di quel fatto, pensò. Non voleva ancora definirlo un caso, non in quello stadio iniziale. Ma che cosa poteva voler dire quel disegno criptico?
Se era un indizio che poteva condurlo all’assassino, doveva fare il possibile per preservarlo. Ma in che modo? Non poteva certo alterare la posizione dell’uomo. Poi gli venne in mente il cellulare. Per il suo ultimo compleanno aveva ricevuto in regalo dalla moglie uno di quegli aggeggi moderni. Non che lo volesse – avrebbe preferito di gran lunga un nuovo avvitatore a batteria – ma lei gli aveva fatto notare che il telefonino di servizio, che a giudicare dalle dimensioni doveva essere uno dei primissimi modelli, gli sformava sempre le tasche di giacche e pantaloni, e inoltre ormai la batteria durava pochissimo, e lei non voleva neppure immaginare che cosa poteva succedere se in una situazione di pericolo si fosse trovato nell’impossibilità di telefonare. Perciò, seppur a malincuore, si era dovuto separare dal suo vecchio telefonino per passare a quel minuscolo apparecchio a conchiglia, che si adattava alle sue dita quanto la sua grancassa a un quartetto d’archi.
In quel momento però si ritrovò a benedire l’ostinazione della moglie, perché – lo aveva letto sulla confezione – in quel telefonino era integrata una macchina fotografica. A dir la verità, fino ad allora non aveva ancora osato affrontare le oltre cento pagine del libretto d’istruzioni di quell’apparecchio di produzione giapponese, se non altro per il fatto che iniziava con le parole: “Prima posizione ‘ON’ attiva pronto di parlare.” Ma non poteva mica essere così difficile… Insomma, anche i bambini delle elementari sapevano trafficare con quegli affari!
Lo aprì e osservò attentamente la tastiera. Oltre alle cifre e alle lettere c’erano anche una marea di simboli minuscoli. Ne premette uno che gli sembrava raffigurare una piccola macchina fotografica. Il cellulare fece due bip, Kluftinger lo portò all’orecchio e una voce metallica gli annunciò: “You have forty-seven new messages. Please check your mailbox.”
Kluftinger imprecò: non capiva perché un cellulare giapponese in Algovia dovesse parlargli in inglese. A ogni buon conto, adesso aveva scoperto di avere una segreteria telefonica che negli ultimi tre mesi doveva essere stata presa d’assalto. Pazienza, in quel momento i messaggi non erano importanti.
Provò un altro pulsante ed effettivamente sul piccolo schermo si illuminarono le parole “Take a photo”, che persino lui era in grado di tradurre.
“Oh, finalmente ci siamo,” borbottò. Si chinò in avanti con il braccio teso e posizionò l’apparecchio sopra la mano sinistra del morto, quella vicino al simbolo, quindi premette il pulsante. Sentì un rumore che sembrava il clic di un otturatore che si chiudeva, quindi apparve una piccola clessidra e alla fine l’immagine. Lì per lì, con la luce del sole che lo abbagliava, non riuscì a distinguerla. La vide solamente quando protesse lo schermo con il palmo: mostrava un uomo con il volto arrossato e una mano scostata dal corpo in una strana angolazione. Soffocò un’imprecazione, riuscì a trattenersi dallo scagliare immediatamente il cellulare in mezzo al lago e riprovò. Questa volta l’inquadratura era giusta, ma sullo schermo riconobbe soltanto una macchia bianca e una vaga ombra rossastra del tutto sfocata. Rinunciò, mise di nuovo via il cellulare e rifletté brevemente. Quindi si frugò nelle tasche e trovò uno dei blocchetti per ordinazioni, gentilmente offerti da un suo conoscente che lavorava al Birrificio d’Algovia, che li usava sempre per prendere appunti. Si sarebbe accontentato di copiare il disegno.
Si accovacciò il più vicino possibile al cerchio di sangue, senza toccarlo, quindi si chinò fin quasi a sfiorare la neve per vedere sotto la mano bluastra dell’uomo, che copriva in parte il disegno. In quella posizione, quasi sdraiato, cominciò fischiettando a trasferire il disegno su carta. In meno di un minuto ne aveva riprodotta una copia passabile. Mancava solo un angolo, ma per vederlo bene doveva cambiare posizione e avvicinare un po’ di più la testa alla mano. Si rendeva conto che quella situazione gli avrebbe procurato altri incubi, visto che non si era mai trovato tanto vicino a un cadavere, ma si rifiutò di lasciarsi sopraffare da quell’idea per concentrarsi invece sul compito che lo aspettava.
Stava per mettersi di nuovo all’opera per completare il disegno quando accadde qualcosa che gli fermò il cuore per un attimo: la mano si muoveva! Con un sussulto si sollevò leggermente da terra e sfiorò il viso del commissario, che d’istinto si ritrasse gridando e atterrò di botto sulla schiena, quindi strisciò freneticamente all’indietro di qualche metro.
Kluftinger rimase disteso, ansante, con il sangue che gli frusciava negli orecchi, a fissare inorridito il morto. Il suo cervello cercò di capire cosa era appena successo: il corpo che aveva davanti si era mosso. Quell’uomo era ancora vivo! Era impossibile, nessuno poteva sopravvivere a un’emorragia del genere. Eppure si era mosso. Poteva essere stato uno spasmo muscolare? Kluftinger aveva sentito dire che cose del genere potevano accadere. Si ricordò anche di quando andava a pescare con suo padre. Quando riportavano a casa le anguille, assistevano a uno spettacolo strano: gli animali continuavano a guizzare anche mentre venivano eviscerati, puliti e lavati. Che succedesse qualcosa del genere anche agli esseri umani?
Oppure lo aveva soltanto immaginato?
La mano fremette una seconda volta. Molto più debolmente di prima, ma comunque in maniera visibile. No, adesso non c’erano più dubbi: quel morto non era morto per niente!
Il commissario rifletté febbrilmente sul da farsi. Doveva aiutarlo, perché anche se quell’uomo era ancora vivo, come minimo era ferito molto gravemente. Non sapeva per quanto tempo fosse rimasto steso lì al freddo. Il freddo! Ma certo, doveva ripararlo dal freddo! Con dita tremanti Kluftinger si tolse il loden, voltò l’uomo sulla schiena e con stupore constatò che lo spettacolo non era neanche lontanamente orribile come aveva immaginato: la muta in neoprene sembrava intatta, nessun taglio o squarcio da cui filtrava il sangue. Il commissario gli stese addosso il cappotto, quindi diede un’ultima occhiata al viso: era la faccia di un uomo giovane, al massimo di una trentina d’anni. Era bianco come un cencio, le labbra violacee, i capelli incollati al cranio spigoloso.
Kluftinger rifletté. Doveva aspettare lì o andare dietro al figlio e alle due donne e chiamare un’ambulanza dalla locanda?
“Mio Dio, papà, ma che è successo?”
A un tratto dalla curva era sbucato Markus. Sembrava scioccato, e Kluftinger non se ne stupì. Doveva averlo preso per matto: in fin dei conti lui credeva ancora che l’uomo sulla riva del lago fosse morto.
”È ancora vivo!” gli urlò.
“Che cosa?”
“È vivo. Non è morto, è ancora vivo.”
Markus guardò il padre, incredulo.
“No, non sono impazzito. È vivo.”
“Ma come… voglio dire, il sangue…”
“Non ne ho idea. Torna indietro di corsa, più in fretta che puoi, e fa’ venire qui un’ambulanza. Meglio un elicottero. Di sicuro a questo poveretto non rimane molto.”
Markus girò sui tacchi e corse via.
Kluftinger rimase di nuovo solo sulla riva, ma la situazione era cambiata. L’uomo era vivo e lui doveva fare in modo che lo rimanesse, però era passato molto tempo da quando aveva frequentato il corso di primo soccorso. In teoria aveva l’obbligo di seguirlo a intervalli regolari, ma Kluftinger conosceva il capo dell’ufficio del personale, e da quando aveva gestito con grande discrezione l’accusa di taccheggio ai danni della figlia, quello annotava le presenze nel fascicolo del commissario nonostante lui non partecipasse realmente al corso. E adesso pagava cara quella negligenza. Il commissario si lambiccò il cervello pensando al modo migliore di intervenire per stabilizzare le condizioni dell’uomo. Stabilizzare, ecco che cosa doveva fare! Ricordò una procedura che si eseguiva sulle persone prive di sensi. Si chiamava PLS, posizione laterale di sicurezza, e Kluftinger era quasi certo di ricordare ancora le manovre necessarie. Si inginocchiò e infilò cautamente la mano sotto la schiena del giovane. Stava appunto per spostargli all’indietro il braccio destro quando un grido alle sue spalle lo fece sussultare. Si voltò di scatto. Il figlio si stava precipitando su di lui. “Ehi, papà, ma sei impazzito? Lascialo stare!”
Kluftinger si ritrasse all’istante.
“Ma che stai facendo?” gli domandò Markus ansante.
“Volevo solo… bisogna pur… posizione laterale di sicurezza!”
“Posizione laterale di sicurezza?” ripeté Markus, incredulo. “Cioè vuoi finirlo del tutto?”
“No, no, volevo dire…” Rifletté un istante e quindi riprese con la massima convinzione: “Dobbiamo rianimarlo.”
“Santo cielo, papà, ma lui respira già! Di’ un po’, ma voi poliziotti non dovete seguire regolarmente corsi di primo soccorso?”
Kluftinger arrossì. “Invece di fare tanto il saputello, dammi qualche suggerimento intelligente.”
“Beh, per prima cosa dobbiamo arrestare l’emorragia. Ammesso che ci sia ancora qualcosa da arrestare.”
“Ho già guardato se sanguina. Controlla anche tu, visto che la sai tanto lunga. Non troverai niente.”
Markus tolse al ferito il loden del padre e cominciò a tastarlo. Kluftinger, ammirato e atterrito allo stesso tempo, vide che il figlio non si faceva il minimo scrupolo a toccare il morto… il ferito.
Ma a parte un taglietto sulla mano, non trovò niente che potesse aver provocato una perdita di sangue di quell’entità.
Si scambiarono un’occhiata perplessa.
“Forse ha delle ferite interne…” cominciò Kluftinger, ma subito si interruppe. Capiva da solo che non era un’ipotesi plausibile.
Markus stava per ribattere quando sentirono il rumore delle pale di un elicottero. Gesticolarono per richiamare l’attenzione del pilota e qualche minuto dopo due paramedici con il giubbotto arancione e una barella piegata correvano verso di loro. A una certa distanza li seguiva un uomo con una valigetta, presumibilmente il medico.
Kluftinger indicò la figura stesa a terra, si qualificò come poliziotto e spiegò ai soccorritori il motivo della sua chiamata. Poco dopo sul sentiero vide avanzare un’auto. Cercò di distinguere il guidatore in mezzo al fogliame: era Willi Renn, il capo della scientifica. Il commissario si sentì sollevato. A poco a poco la scena del crimine cominciava ad assumere caratteristiche “normali”. Si rialzò e andò incontro alla macchina, dalla quale scese una figuretta magra con un grosso berretto di lana sulla testa. Se possibile Willi sembrava ancora più basso del solito, con quei mastodontici stivali invernali, del tipo che andava di moda negli anni Ottanta. Moon Boot, li chiamavano, perché trasformavano chi li indossava in una specie di astronauta. O, perlomeno, quello era l’effetto su Willi Renn, che in quegli stivali scompariva quasi per un terzo.
“Willi! Finalmente! Meno male che sei arrivato.”
“Ciao, che cos’abbiamo? Devo preoccuparmi?”
“In che senso, preoccuparti?”
“Beh, non ti ho mai visto così felice di vedermi.”
Kluftinger liquidò quell’osservazione con un gesto. Insomma, non che si stessero propriamente simpatici, però lui non aveva mai messo in dubbio la competenza del capo della scientifica, che i suoi colleghi avevano soprannominato “topastro” per la sua abitudine di infilarsi dappertutto alla ricerca di impronte.
“Beh, è una storia un po’ strana.”
“Non ho tempo per le storie. Dov’è il cadavere?”
“È proprio questo il punto: non c’è nessun cadavere.”
“Come dici? Non vorrai dirmi che hai perso un intero cadavere? Una cosa del genere non me l’aspettavo neppure da te, Klufti.”
“No, no, certo che no. È solo che il cadavere non è morto.”
“Il cadavere non è morto?” Renn lo guardava perplesso.
“Beh, voglio dire: l’uomo non è un cadavere. Nel senso che è ancora vivo.”
Kluftinger indicò i due paramedici dietro di lui, che nel frattempo avevano adagiato la vittima sulla barella e l’avevano avvolta in una coperta isotermica dorata. Uno dei due teneva sollevata una sacca da cui partiva un tubo che spariva sotto la coperta.
“Sembrava morto, per via di tutto quel sangue.”
Willi Renn si avvicinò ai soccorritori, seguito a ruota da Kluftinger. Il capo della scientifica diede solo una rapida occhiata alla macchia rossa, quindi si strinse nelle spalle e chiese: “Quale sangue?”
“Ma sei cieco? Se è tutto rosso!”
Renn scosse il capo. “Quello non è mica sangue.”
Il commissario lo guardò scioccato. “Ma che stai dicendo?”
“Che quello non è sangue. Credimi, conosco la differenza.”
Kluftinger non ci capiva più niente, ma prima che avesse il tempo di riflettere, Willi Renn sgranò gli occhi, gli passò davanti deciso e cominciò a sbraitare.
“Dite un po’, ma lo fate apposta a calpestare tutte le tracce? Come pensa che riusciremo a trovare ancora qualcosa in questo campo di battaglia?”
Il medico, un uomo sulla trentina con gli occhiali di nichel, lo guardò attonito. “Io qui sto solo facendo il mio lavoro,” borbottò. Kluftinger avrebbe potuto giurare che sottovoce avesse aggiunto anche “brutto nanerottolo”.
Renn partì subito in quarta con una tirata di insulti così violenta da lasciare esterrefatti i paramedici. Quando c’erano di mezzo le tracce in una scena del crimine, con lui non si scherzava. E pur essendo più alti di lui di tutta la testa, i soccorritori parvero davvero intimiditi.
“Riprendiamo le nostre cose e ce ne andiamo subito,” disse il medico con gli occhiali di nichel, riponendo tutta l’attrezzatura nella valigetta. Quando fece per appoggiarla a terra, fu Kluftinger a lanciare un grido.
“No! Il segno!” Quello rimase immobile, come colpito da un fulmine, e non osò più muoversi. Il commissario si avvicinò di corsa e lo scostò delicatamente, quindi tese una mano per mostrare il segno che aveva scoperto in precedenza.
Will Renn fece un cenno di approvazione. “Complimenti. Vedrai che anche tu diventerai un vero esperto della scientifica.”
Nonostante la vena ironica contenuta in quell’elogio, Kluftinger si sentì comunque lusingato.
“Allora noi ce ne andiamo, signori,” annunciò in fretta il medico. “Portiamo il ferito all’ospedale di Kempten. È assiderato, le possibilità che sopravviva non sono alte, tanto più che i primi soccorsi non sono stati ottimali. Immagino che quel vecchio cappotto sia suo. Ce lo stiamo portando via.”
“Sì, naturale che è il mio cappotto! Passerò a recuperarlo in ospedale.”
Soltanto allora Renn poté dare un’occhiata al punto in cui fino a poco prima era stesa la vittima. Lo osservò per un po’, poi socchiuse gli occhi dietro le spesse lenti degli occhiali di corno troppo grossi per lui, e incurvò gli angoli della bocca all’ingiù. Per un attimo Kluftinger ebbe l’impressione che il collega stesse per mettersi a piangere, invece incominciò a imprecare a gran voce e subito dopo brontolò: “Guarda un po’ qua! Guarda un po’ qua! Tutto rovinato. Tutto distrutto. Come sperate che possa trovare qualcosa di utile?”
Kluftinger seguì il suo sguardo e fu costretto ad ammettere che era davvero tutto sottosopra: il cerchio di… roba rossa, o quello che era… non era più un cerchio. Era tutto ricoperto di impronte di piedi.
Un rumore alle sue spalle lo spinse a voltarsi. Erano Erika e Yumiko, che si avvicinavano pian piano. Erika era pallida, e Yumiko aveva un’aria ancora chiaramente inorridita. Kluftinger si era quasi scordato di loro.
Anche Renn si voltò, e soltanto a quel punto parve fare caso a Markus, che era rimasto fermo dietro di loro.
“Ah, beh, vi siete proprio trovati un bel posticino per la vostra scampagnata di famiglia!” disse. E quando si accorse che la moglie del commissario continuava a tremare, aggiunse: “Erika, va’ alla locanda e fatti dare qualcosa di caldo.”
“Vengo appunto da là. Volevo soltanto…”
“Sarebbe davvero meglio che tornassi laggiù. E portati dietro tuo figlio,” la interruppe Renn rivolgendo un cenno del capo a Markus. Intendeva dire che sarebbe stato meglio per lui e per il suo lavoro, ma evitò di specificarlo.
Quindi si voltò verso Yumiko. “Qui non potere rimanere,” disse a voce più alta scandendo esageratamente le parole. “Andare Neuschwanstein, là tante cose da vedere.” Lanciò un’occhiata a Kluftinger, e sospirò esasperato: “Turisti!”
Nel commissario si risvegliò all’istante un istinto protettivo nei confronti della ragazza che gli fece sbottare: “Ehi, bada a come parli. Quella è… mia… nuora.”
S’interruppe di botto. Anche Markus sulle prime parve scioccato, poi invece disse divertito: “Beh, adesso non corriamo troppo.”
“Volevo dire… insomma, hai capito.”
Willi Renn arrossì. “Oh, non lo sapevo. In tal caso chiedo scusa. E congratulazioni, ovviamente. Hai pescato un bel biscotto della fortuna, Markus, eh?”
“Sì, va beh,” lo liquidò Kluftinger. Ma perché aveva dovuto commettere quell’errore proprio davanti a Renn? Nel giro di qualche giorno al commissariato lo avrebbero saputo tutti.
“Adesso per piacere potremmo occuparci di nuovo di questa faccenda?” chiese nervoso, riportando l’attenzione al caso. “Che cosa mi puoi dire di quel segno?”
Renn corrugò la fronte. “Beh, sembra un simbolo germanico o qualcosa del genere,” ipotizzò. “Forse i colleghi sapranno dirci qualcosa,” disse indicando la strada in lontananza, da cui stavano sopraggiungendo diverse pattuglie della polizia e un paio di auto prive di contrassegni. “Manco a dirlo, la prima auto è sempre quella di Friedel Marx,” aggiunse poi scuotendo il capo.