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Gonçal Mayos

Macrofilosofia della globalizzazione e del pensiero unico

Crediti

ISBN rústica: 978-84-9007-462-6.

ISBN ebook: 978-84-98976-41-0.

Sumario

Crediti 4

Macrofilosofia della globalizzazione e del Pensiero Unico 9

1. SIAMO GLOBALI? 11

1.1. Umanizzare e «appropriarsi» della globalizzazione 12

2. UNA SPECIE, UNA GLOBALIZZAZIONE 17

2.1. Globalizzazione pur nella diversità 17

2.2. Globalizzazione impercettibile 19

2.3. Con la modernità, la globalizzazione si diventa violentemente percepibile 22

2.4. Il culmine – violento – della globalizzazione 24

3. LE BASI DEL PENSIERO UNICO E GLOBALIZZAZIONE 28

3.1. Per una genealogia del PU 30

4. RITORNO DELLA GLOBALIZZAZIONE AD EGEMONIA OCCIDENTALE 34

4.1. Omogeneizzazione o pluralità di civiltà? 38

5. NELLA CRISI ATTUALE 42

5.1. Crisi, ma nel capitalismo 43

5.2. Mancanza di controllo 45

5.3. Debolezza delle frontiere e «santuari» statali 47

5.4. Crescente omogeneizzazione delle culture 49

5.5. Compatibilità tra turboglobalizzazione, capitalismo e PU 51

6. LA NUOVA ÉLITE E LE CULTURE GLOBALIZZATE 54

6.1. Indigenizzazione o multiculturalismo banalizzato 58

7. ALTERNATIVE CULTURALI 62

8. CONTRO UN «PENSIERO DEPENSATO» 66

8.1. Mera gestione logistica 69

8.2. Pensiero minimo e postmodernità 71

8.3. Baudrillard: società simulacro 73

8.4. Lunga genesi, recente presa di coscienza 80

8.5. Contro la mitizzazione del PU 82

8.5. La grande battaglia a venire 85

9. TURBOGLOBALIZZAZIONE E PENSIERO UNICO: IL «TERRORISMO» COMO ESEMPIO 87

10. BIBLIOGRAFIA 92

10.1. BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE TRADOTTE IN ITALIANO 96

Macrofilosofia della globalizzazione e del Pensiero Unico

Gonçal Mayos1

«Pericolo della nostra cultura: apparteniamo ad un tempo la cui cultura è in pericolo di affondare a causa dei (propri) mezzi di cultura»2
F. Nietzsche, Umano troppo umano

Gli attentati alle Torri Gemelle di New York dell’undici settembre duemilauno segnano un cambio epocale: significano la fine di una «sbornia» postmoderna e dell’idea ingenua della «fine della storia» di Fukuyama (1992); il dibattito internazionale viene occupato dalle questioni della globalizzazione, del «Pensiero Unico»3 (PU), e dello scontro di civiltà di Huntington (2005) e, poco dopo, dalla crisi ipotecaria e finanziaria.

Dello schema mentale della Guerra Fredda prima e della postmodernità poi, sopravvive ai giorni nostri un unico consenso chiaro, quello della «globalizzazione» e dell’egemonia dei «mercati globali». Un consenso che si impone ai moderni Stati-Nazione, alle gerarchie economico-tecnologiche internazionali, fino ad ora inespugnabili, ai debiti «sovrani», al welfare state che tanto è costato creare e, in modo particolare, si impone alle stesse culture, alle aspettative di individui e popolazioni intere. Come spiega Edward Luttwak (2000), la globalizzazione comporta nuovi vincitori e nuovi vinti, fino al punto in cui, oggi, sembra essersi imposta alla stregua del «giudizio universale» della storia (il «Weltgericht» di cui scrivevano Schiller o Hegel) che tutto governa.

Possiamo definire la «globalizzazione» come un processo complesso di lunga durata che evidenzia gli aspetti comunicativi e di interdipendenza in tutto il pianeta. Nel mondo francofono si usa abitualmente il termine «mondializzazione», noi preferiamo usare la parola di origine anglosassone «globalizzazione» e consideriamo i due termini come sinonimi. Trovandoci davanti a ciò che di più simile può esserci ad un totale e totalizzante «giudizio universale», ci sembra controproducente distinguere —come pretendono alcuni— tra una «mondializzazione» nel senso economico, geografico e tecnologico, ed una «globalizzazione» culturale e unificatrice (di cui l’estremo ultimo sarebbe il PU).

La condizione che definisce l’attuale società postindustriale e «della conoscenza» è il legame, quasi inseparabile, tra conoscenza e tecnologia, cultura ed economia, geopolitica e geoeconomia (Luttwak 2000), mentre la globalizzazione tende a rendere sovrano un unico sistema «possibile» che include: economia, tecnologia, politica, mass media, Internet, e un «Pensiero Unico» di portata mondiale e che definisce l’unica «cosmovisione» e «cultura» oggi possibile.

L’apparizione cosciente, ed evidente per tutti, di quel nuovo oggetto che è la Terra nel suo insieme, comporta profondi cambi mentali.

Il peggiore di questi è forse il PU che, in ultima istanza, tende a trattare in modo riduttivo il nostro pianeta alla stregua di ciò che Heidegger definiva un mero oggetto «a portata di mano», cioè come un oggetto che può essere posseduto tecnologicamente e dominato strumentalmente per il gioco economico dei «mercati».

Così il PU pretende ridicolizzare la tradizionale tendenza umana, a riverire la natura come sacra «madre» comune dell’umanità e delle creature viventi in generale come una semplice mitologia senza senso. Sostituendosi a tutte le «mitologie» precedenti impone una nuova egemonia culturale che, al contrario, dispensa l’umanità dall’assumersi coscientemente la sua nuova responsabilità rispetto alla natura, il pianeta, e la vita che contiene.

Impedisce inoltre di affrontarei modo solidale i pericolosi rischi globali (Ulrich Beck 1994) di cui noi stessi siamo la causa principale.


1 Professore associato di Filosofia Moderna e Contemporanea all’Università di Barcellona (UB) e consulente della U.O.C. (Università Aperta della Catalogna).

Pagina web personale: www.ub.edu/histofilosofia/gmayos.

2 La traduzione del testo è del traduttore italiano.

3 Ricordiamo che Ignacio Ramonet rese celebre questo autorevole avvertimento nel 1995 in un famoso editoriale di Le Monde Diplomatique ampliandola poi nel libro Il Pensiero Unico (1996) scritto con Fabio Giovannini e Giovanna Ricoveri (Mayos 2000: 17ss).

1. SIAMO GLOBALI?

Anche se mai con l’intensità contemporanea, per molti aspetti la globalizzazione ha un’origine ed una genealogia molto remota che bisogna tenere in considerazione per poterla analizzare. La globalizzazione si manifesta oggi, però, in una varietà di aspetti che non procedono allo stesso ritmo. La globalizzazione economica e —specialmente— quella finanziaria e tecnologica (in particolar modo le T.I.C.) superano in qualità e quantità, ad esempio, la globalizzazione dei diritti e quella legata ad i rischi epidemiologici4 ed ambientali. Pur delineandosi all’orizzonte un pericoloso PU, la globalizzazione è più debole negli aspetti cognitivi, culturali e civilizzatori, e pure è molto limitata per ciò che riguarda la mobilità dei lavoratori, la vita sociale e politica, i diritti civili e la qualità della vita.

In generale, nessuno dubita ormai dell’onnipresente imposizione di uno stesso modello economico e tecnologico; ciò nonostante si lamenta una carenza di globalizzazione nella conoscenza umana o si teme la crescente uniformità globale di culture e civiltà. Più ambivalente è la reazione rispetto alla circolazione dei lavoratori e ai rischi ambientali, pur senza metterne in discussione l’impatto nella crescente globalizzazione. Allo stesso tempo si è enormemente esteso l’ideale utopico della necessaria convergenza globale sui temi essenziali della convivenza sociale, politica, dei diritti umani e della qualità di vita.

Vi è quindi una grande diversità di ritmi e di effetti in seno alla globalizzazione, e le reazioni provocate da ognuna di questi aspetti è solitamente molto differente. Proprio perché lo sviluppo raggiunto in ognuno delle sue sfaccettature è incomparabile con quello delle altre, dobbiamo specificare e puntualizzare in ogni caso a quale di queste facciamo riferimento.

Praticamente nessuno sembra contrario alla qualità della vita (sanità, scolarizzazione, diritti civili, ecc.) raggiunta dai Paesi più avanzati, né che questa si estenda ai Paesi più poveri. Ora, dato che questa globalizzazione è molto più arretrata rispetto a quella finanziaria, economica, tecnologica e dei rischi epidemici ed ambientali, la si dimentica costantemente, facendo risaltare invece altri aspetti negativi o pericolosi della globalizzazione.

Per questo, i nuovi movimenti sociali, critici su questi aspetti (nonostante ne difendano altri appena citati) sono denominati semplicemente come «alternativi» e «no-global». È facile capirne i motivi: gli effetti negativi della globalizzazione sembrano aver superato quelli positivi (che pure sono molto importanti) essendo oltretutto più visibili agli occhi della popolazione.

Come ha ben compreso Zygmunt Bauman (2003, p. 81), dobbiamo parlare di globalizzazione riferendoci «principalmente, agli effetti globali chiaramente indesiderati e imprevisti». Si tende a vedere la globalizzazione come un destino che ci è «caduto» addosso e del quale dobbiamo farci carico contro la nostra volontà, e non come il risultato della nostra azione collettiva nel mondo. Certamente la globalizzazione ci spaventa e ci disorienta perché —pur avendola costruita collettivamente— ancora «non abbiamo, né sappiamo con certezza assoluta come ottenere i mezzi per pianificare e realizzare azioni di portata globale» (Bauman, 2003, p. 81).

1.1. Umanizzare e «appropriarsi» della globalizzazione

Per ragioni che esporremo brevemente, dobbiamo desistere dal percepire la globalizzazione come qualcosa di alieno, imposto, disumano e incontrollabile. Al contrario, la si deve analizzare come uno degli effetti più generali dell’azione umana sul mondo, come qualcosa che noi abbiamo fatto e che quindi —in qualche modo— abbiamo voluto (seppur senza rendercene conto). La globalizzazione è qualcosa di umano (troppo umano, direbbe Nietzsche), gli esseri umani l’hanno creata e possono quindi cambiarla, reindirizzarla, trasformarla, o almeno, umanizzarne gli effetti.

Come si suol dire —ed è probabilmente vero— la globalizzazione è venuta per restare e il prezzo di un ritorno ad periodi storici di minor globalizzazione potrebbe essere immenso. Ora, forse ancor più alto potrebbe essere il prezzo di una globalizzazione non governata, che cresca senza una reale e cosciente guida umana, che si sviluppi in modo sproporzionato in alcuni aspetti (come abbiamo visto) mentre in altri rimanga praticamente inesistente.

Quindi e in definitiva: bisogna condurre coscientemente quest’opera congiunta dell’umanità qual è la globalizzazione, bisogna umanizzarla, renderla meno contundente per le persone che la vivono sulla propria pelle ed adattarla alle necessità umane. Per questo è necessario che l’umanità nel suo insieme si appropri5 coscientemente della globalizzazione che finora ha subito con assoluta incoscienza.

Sicuramente questo è un progetto con molte aspirazioni utopiche, ma è anche una necessità ineludibile. La globalizzazione attuale ha raggiunto livelli tali di sviluppo da richiedere più che mai una guida che la conduca coscientemente e ne prevenga gli effetti razionalmente.

La globalizzazione è un fenomeno molto antico (Osterhammel & Petersson, 2005 e Steger, 2003) le cui origini echeggiano nella storia. Steger (2003: 20 ss) dedica un capitolo al «periodo pre-storico» della globalizzazione che rimonterebbe tra i 10.000 e i 3.500 anni A.c. Detto ciò, non v’è dubbio che l’attuale globalizzazione abbia modificato profondamente la propria natura. Siamo entrati in uno stadio di cambiamenti accelerati, di contatti continui e praticamente istantanei; siamo entrati in quello che possiamo denominare «turboglobalizzazione».

Per questo scompaiono velocemente i limiti che —fino a poco tempo fa— mantenevano ancora ampie zone del mondo relativamente autonome o indipendenti le une dalle altre. La globalizzazione attuale ha reso le tradizionali frontiere geografiche molto meno importanti e stabili; lo stesso succede con le frontiere politiche degli Stati-Nazione, mentre le frontiere economiche sono, in molti casi, praticamente inefficaci. Certamente esse non sono scomparse del tutto, ma il loro impatto e la loro effettiva capacità di filtro si sono ridotte enormemente.

L’accelerata «turboglobalizzazione» avanza parallelamente, in alcuni aspetti, a quella che potremmo definire una «globalizzazione monadica»,6 giacché per una certa élite mondiale sono ormai evaporate le distinzioni o diversificazioni interne. Queste élite sono ormai definite da un unico sistema, o un solo mondo, nel quale le distanze sono annullate. L’attuale globalizzazione non si limita più a connettere e mediare tra loro sottosistemi o «mondi» in gran parte indipendenti e con volontà e capacità autocratica. Con la velocità delle moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) il mondo si è convertito —virtualmente, e per un numero crescente di persone— in una «monade» unica. Internet incarna l’ideale di Mc Luhan (1989) del «villaggio globale» e, ancor di più, della globalizzazione monadica.

Ciononostante, anche nella virtualità monadica di Internet, la società attuale mantiene molteplici realtà nettamente divise e incatenate a stati di servitù sociale e politiche, ataviche e locali, ancora molto isolate e fossilizzate in dinamiche interne. In definitiva: ci siamo globalizzati però non necessariamente negli aspetti in cui la globalizzazione sarebbe più desiderabile. Paradossalmente ci troviamo in uno spiacevole punto intermedio: iperglobalizzati in aspetti forse non fondamentali, mentre al contrario continuiamo molto poco globalizzati (ipoglobalizzati) in quelli più necessari, vitali ed importanti.

Per ricondurre l’attuale situazione, paradossale e intermedia, è necessario che l’intera umanità si appropri coscientemente di questo potente e complesso processo qual è la globalizzazione. Si devono trovare i meccanismi per i quali la globalizzazione non fallisca proprio nelle sfide in cui la convergenza di tutta l’umanità è più necessaria: l’aspettativa e la qualità di vita, gli effettivi diritti civili e politici della popolazione, l’estensione della conoscenza e delle capacità vitali o sociali.

In definitiva, è necessario decidere con cognizione di causa quando e in quali termini seguire il cammino dell’assoluta e monadica globalizzazione omogeneizzatrice, anche quando si debba accettare il cosiddetto «Pensiero Unico» che sta emergendo nelle ultime decadi. Allo stesso tempo bisogna poter decidere come e quando mantenere una globalizzazione «arcipelago» che rispetti le ricchezze culturali e civilizzatrici umane, intrecciandole creativamente in linea con un dialogo tra civiltà che eviti l’orizzonte predetto da Huntington (2005).


4 Un chiaro esempio dei rischi della globalizzazione per la salute è esemplificato dalla rapida espansione del virus dell’HIV in tutto il mondo. Ma ci sono antecedenti storici, come la famosa «peste nera» nella metà del XIV secolo. L’estensione dell’AIDS e della «peste nera» sono stati possibili solo grazie ai crescenti processi di globalizzazione. Nel XIV secolo la peste fu trasportata dai primi vascelli (più precisamente dai ratti trasportati) che in modo più o meno diretto collegavano i porti mediterranei (Venezia, Genova, Barcellona, Valencia, etc.) con quelli dell’Estremo Oriente (dove il morbo apparve per la prima volta). Non deve sorprendere quindi che, attualmente, l’AIDS «viaggi» sia in prima classe negli aerei che nelle peggiori condizioni dell’immigrazione illegale.

5 Il testo originale utilizza il termine «empoderamiento» conosciuto in Italia nella versione inglese «empowerment». Non esiste una definizione unanime ma in termini generali, e aldilà della traduzione letterale come «dare o conferire potere», «empowerment» indica il processo attraverso il quale un gruppo o un individuo ottiene gli strumenti, psicologici, organizzativi, economici, sociali, ecc. con i quali è in grado di fare delle scelte e di trasformare queste scelte in concreti effetti desiderati. Molto utile e dettagliato per lo studio del termine «empowerment» è il testo di Elisheva Sadan (1997) Empowerment and Community Planning, Tel Aviv: Hakibbutz Hameuchad Publishing House Ltd. Il termine ha quindi come concetti fondanti quelli del potere, sia nel senso politico-filosofico che di powerfulness, della coscienza riflessiva e dell’efficacia. I suoi contrari sono quelli di impotenza (powerlessness), incoscienza e dispersione, nel senso di utilizzo inefficace delle risorse disponibili o di erronea valutazione, su quali obiettivi raggiungere e con quali mezzi.

Il traduttore ha preferito, d’accordo con l’autore, il termine italiano «appropriare» al seppur tecnico, ma intraducibile, empoderamiento/empowerment. Si mantiene così la sfumatura di «possesso individuale» che l’autore ha voluto trasmettere: il «fare-propria». La globalizzazione richiama concetti di responsabilità e decisioni fondamentali al tema in questione. Ciò nonostante, e per non perdere il nesso con il più ampio uso che il termine spagnolo e inglese possiede, appropriazione ed «empowerment» vengono usati nel testo come intercambiabili. Si lasciano al lettore alcune indicazioni bibliografiche: nelle sue varie declinazioni il concetto di «empowerment» ha conosciuto, a partire dagli anni Settanta (Conyers 1975 è il primo ad utilizzare il termine con questa accezione), notevole successo in tutte le branche delle scienze psicologiche e sociali: M. Zimmerman e J. Rappaport (1988) Citizen participation, perceived control, and psychological empowerment, American Journal of Community Psychology, 16, pp. 725-750; D. Perkins e M. A. Zimmerman (1995) Empowerment Theory, Research and Application, American Journal of Community Psychology, 23, pp. 569; M. A. Zimmerman (2000) Empowerment Theory. Psychological, Organizational and Community Levels of Analysis, In J. Rappaport, E. Siedman, Handbook of Community Psychology, NY: Kluwer Academic/Plenum Publishers. In particolare per quanto riguarda i temi dell’esclusione sociale: B.B. Solomon (1985) How to Really Empower Families? New Strategie for Social Work Practitioners, Family Resource Coalition, Report 3, 2-3; e dei diritti civili: J. Conyers (1975) Toward Black Political Empowerment – Can System be Transformed?, Black Scholar 7-2; B.B. Solomon (1976) Black Empowerment: Social Work in Oppressed Communities, NY: Columbia University Press. Successivamente è stato preso in prestito dai più svariati ambiti di ricerca sociale (ad esempio gli studi di genere) ed economica (in relazione alle risorse economiche di comunità svantaggiate o alle dinamiche psico-sociali negli ambienti di lavoro). In ambito filosofico è certamente possibile trovare termini ben più studiati e specialistici che riflettano la complessa relazione tra soggetto e potere. I concetti più simili a ciò che oggi si intende con empowerment, ed alle cui fonti questo ha sicuramente attinto, andrebbero cercate nelle filosofie critiche del XX secolo: dalla Scuola di Francoforte all’esistenzialismo e alle varie fasi dello strutturalismo e del post-strutturalismo (Foucault). Per un suo uso più strettamente legato all’empowerment a cui fanno riferimento le scienze sociali, si veda: Amartya Sen (1985), Well-Being, Agency and Freedom: The Dewey Lectures 1984, The Journal of Philosophy, Vol. 82, No 4. [N.d.T.].

6 Abbiamo creato il neologismo «globalizzazione monadica» per indicare come la velocità delle attuali TIC stia generando un mondo dove la distanza interna è virtualmente scomparsa (almeno per quanto riguarda le comunicazioni telematiche). Ci rifacciamo al termine «monade» (dal greco «monádos»: «unità») usato dal filosofo e matematico razionalista Gottfried Wilhelm Leibniz. Questi considerava le «monadi» come le «unioni ultime» o «atomi non-materiali né estesi» della realtà, e li caratterizzava per non possedere estensione, spessore, né avere distanza né dentro né tra di loro. All’attuale globalizzazione si può aggiungere l’aggettivo di «monadica» anche perché ha fatto virtualmente scomparire le distanze comunicative tra i fruitori di Internet.