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Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.

Della stessa autrice:

Delitto al pepe rosa. Il primo caso della cuoca Katharina Schweitzer

Morte sotto spirito. La cuoca Katharina torna a casa

Assassinio à la carte. La cuoca Katharina e la mafia turca

Miele amaro. La cuoca Katharina e l’eredità pericolosa

Titolo originale: Himmel un Ääd

© 2012 Emons Verlag GmbH

Tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana: aprile 2019

Impaginazione: Rossella Di Palma

Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-473-5

Distribuito da Emons Italia S.r.l.

Viale della Piramide Cestia 1C

00153 Roma

www.emonsedizioni.it

Per Martina

BRIGITTE GLASER

BUFFET AL VELENO

La cuoca Katharina e il terribile sospetto

Traduzione di Stella Maris

UNO

A Colonia chi vuole arrivare in alto ama festeggiare ai piani alti. Era così anche per il dottor Dirk Bause, padrone di casa di quella serata alla torre LVR. Piccolo di statura come Napoleone, ma ben più grasso del celebre francese, Bause camminava impettito lungo l’ampia vetrata e, con modi da generale, indicava la città ai suoi piedi, additando di continuo una casa in particolare, da qualche parte tra il duomo e la vecchia questura: raccontava a ciascuno dei suoi ospiti, che ne fossero interessati o meno, che la sua carriera era iniziata proprio in quel modesto edificio degli anni Cinquanta. Aveva fatto fortuna nel ramo informatico, ed era stato tra i primi a fiutare l’alba del mondo digitale puntando sul cavallo giusto. E per questo ormai non abitava più in quel bilocale da due soldi, bensì direttamente sul Reno, in uno dei tre edifici a forma di gru appena costruiti, quello centrale, che ovviamente non mancava di indicare ai suoi invitati.

Di software ce n’era bisogno in tutti i campi, di conseguenza gli ospiti della serata formavano un bell’insieme variopinto. Riconobbi due conduttori di talk show in là con gli anni e alcuni dipendenti della WDR, che erano già stati qualche volta a mangiare da me al Giglio Bianco. Sugli altri invitati potevo solo fare congetture.

Il gruppo di signori in fondo a destra, gambe larghe e mani in tasca, pronti a calpestare la città. Costruttori? Gli uomini in abiti più raffinati proprio davanti alla sagoma del Musical Dome, splendente di luci blu notte, che lanciavano sguardi fulminei per controllare che nessuno stesse origliando le loro trame. Bancari?

Il circolo sparuto in completi grigio perla, a un passo dal fusto di birra Kölsch, gli sguardi febbrili da giocatori, giù a versarsi altra birra. Bancarottieri?

Nella truppa in primo piano che si lasciava andare a spacconerie ad alta voce e sembrava aver dimenticato la città luccicante in basso riconobbi alcuni volti della stampa: matador della politica locale, che una volta di più rimestavano nel calderone degli affari pubblici di Colonia, con una cricca grossolana di contorno.

Lì accanto, elegantissime signore in nero avevano l’aura inequivocabile della cultura. Pietrificate come vedove appena sfornate, guardavano giù oltre il Reno verso i tetti rilucenti d’oro del Museo Ludwig. Rimpiangevano i tempi in cui la città poteva ancora permettersi di spendere in progetti così sontuosi? Oppure si sentivano semplicemente a disagio in mezzo a quei gruppi dominati dagli uomini?

No, in fondo c’era un altro drappello di donne: ultracinquantenni stagionate, fianchi abbondanti, rughe, capelli colorati, i segni dell’invecchiamento al completo. Una signora in uno sgargiante soprabito di seta si staccò da loro per aggirarsi annuendo tra i vari capannelli. Cos’aveva a che fare con questa città o con Bause? Chi o cosa stava cercando?

Seguendo i suoi passi incappai in persone che non avevo ancora messo a fuoco. Una vivace brigata di soli giovani. I figli di Bause con i loro amici? Ehi, ma quella è Minka! Guardai due volte per esserne sicura: merletti rosa antico, spalline filiformi, riccioli biondi sciolti, agghindata che era una delizia! Niente a che vedere con la giovane pallida, coda di cavallo, t-shirt e jeans, che lavorava da me al Giglio Bianco come lavapiatti.

Lo sgargiante soprabito di seta si fermò vicino ai giovani e salutò una cicciottella in abito di paillette color vinaccia, l’unica che in quella cerchia di adolescenti non era né giovane né magra. E in più l’unica, tra tutti gli ospiti di Bause, che io conoscessi davvero bene: Adela Mohnlein. “Betty, che bello!” gridò e strinse allegra la mano della signora in seta.

In un attimo Adela si fece largo tra due ragazzi dando loro un buffetto sulle guance, per poi stritolare in un abbraccio Minka. Piano, Adela!

La mia amica e coinquilina era un’ostetrica in pensione anticipata, invitata a quella festa perché più di vent’anni prima aveva fatto nascere i figli della signora Bause. “Una cosa del genere ti lega in un modo straordinario,” mi spiegava ogni volta che mi meravigliavo di tutti quelli che conosceva in città.

Due signore dai fianchi abbondanti che non riuscivano a mettersi d’accordo se avesse più calorie la crème brûlée o la mousse al caffè mi fecero venire in mente che dovevo tornare al mio posto al buffet; quando la loro scelta cadde sulla crème brûlée presi il cannello a fiamma, caramellai lo strato di zucchero e augurai loro buon appetito.

“Non c’è niente con la cioccolata?” Un nano dalla cravatta verde pappagallo si infilò tra le due signore e mi si parò davanti. Tutto in lui sembrava sproporzionato: braccia troppo lunghe, gambe troppo corte, pancia pesante, capelli radi e, in compenso, due cespugli al posto delle sopracciglia.

“Purtroppo non più.” Mi sforzai di fare un sorriso dispiaciuto.

“E dove sono finiti i tortini al cioccolato?”

Squadrò le mie rotondità con aria sprezzante, quasi fossero un indizio del fatto che ero stata io a rimpinzarmi di quei tortini. Non avevo una corporatura e un viso qualunque, tutt’altro. Riccioli rossi, pelle bianca e lentiggini, un metro e ottanta per ottanta chili, questa ero. Non passavo inosservata. Nemmeno a Carnevale mi sarei potuta mascherare da silfide. A volte mi divertivo a scommettere con me stessa se agli uomini bassi piacessero le donne alte e corpulente come me. Nel caso del nano che avevo davanti, puntai decisamente sul no.

“Ha calcolato male?” continuò lui inviperito. “La cioccolata va sempre via, non ce n’è mai abbastanza, se lo segni. E ora dove lo vado a prendere qualcosa di energetico per il resto della serata?”

“Un Mars?” proposi. “C’è una stazione di servizio dietro l’angolo.”

Non lo trovò divertente. Indicò seccato la crème brûlée. “Mi dia una di quelle.”

Riaccesi la fiamma, e nella mia fantasia ci arrostii il ventre pingue dell’individuo che avevo di fronte. Il contatto diretto con ospiti sgradevoli era uno dei motivi per cui odiavo fare catering.

Ero una cuoca, maledizione! Non riuscivo proprio a girellare tra gli ospiti con mille moine come faceva Ecki. Il nano velenoso prese il dessert con poco garbo e andò a unirsi al gruppo dei politici locali. Contenta di essermelo tolto di torno e di non dover servire nessun altro, intrecciai le mani dietro la schiena e volsi lo sguardo all’altro lato della sala.

“Trent’anni della CB-Computer Bause”, campeggiava in arancione acceso sui poster e sulle bandiere con cui avevano decorato la sala; Bause non aveva badato a spese per quell’anniversario a cifra tonda. Non avevo idea di quanto avesse pagato per affittare il ventottesimo piano della torre LVR, ma sapevo esattamente quanto gli aveva messo in conto Ecki per il catering. Al Giglio Bianco non arrivavo a guadagnare quella somma in un’unica sera nemmeno con il pienone. Solo per questo mi ero impelagata in una simile impresa fuori sede.

Quanto a Ecki, quel buon affare tirava acqua al suo mulino. Avrebbe scambiato volentieri le serate al Giglio Bianco con dei catering in giro, limitando l’attività ai business lunch; ma su questo con me sbatteva contro un muro. Catering ed eventi scicchettosi di altra natura erano un argomento di litigio garantito tra noi due.

Quelle altezze così rarefatte si addicevano bene a Ecki. Aveva troppi valzer viennesi nel sangue e si divertiva a volteggiare fra i grappoli di ospiti bilanciando su un vassoio i calici di champagne. No, non giocava a fare il sovrano della città come Bause, semplicemente gli mancava il senso della realtà. Era un visionario. Di preferenza si fermava vicino ai gruppetti di signore che non si limitavano ad alleggerirgli il vassoio di qualche bicchiere, ma ricambiavano i suoi scherzi e complimenti sghignazzando come ragazzine eccitate; perfino le vedove nere ridacchiavano di nascosto. Trucchetti viennesi, charme da salotto: le donne di Colonia ne andavano matte! E le capivo benissimo, visto che ci ero cascata anch’io.

Non erano soltanto Ecki e lo champagne a incontrare ampio favore, anche la Kölsch scorreva a fiumi, soprattutto tra gli uomini, che la gustavano con un liquore, il Kabänes. I discorsi ufficiali erano già stati pronunciati, la battaglia al buffet già combattuta, a eccezione di qualche ritardatario ancora al dessert. Poteva iniziare la parte divertente della serata, che fu introdotta musicalmente da un pezzo dei Bläck Fööss. Tra non molto, tutti avrebbero iniziato a dondolarsi sottobraccio cantando a squarciagola una delle tante canzoni in dialetto locale. La maggior parte delle feste in questa città finiva, in un modo o nell’altro, in maniera Carnevalesca.

Ma non si era ancora a questo punto. La musica era troppo bassa, le risate troppo contenute, la quantità di alcol ancora esigua, molte delle conversazioni troppo serie. Feci una stima approssimativa di quanto mancava al momento in cui avrei potuto toccare il letto. Concessi altri dieci minuti agli ultimi ritardatari per una crème brûlée. Poi avrei staccato la fiamma e iniziato a riporre nelle casse piatti e scodelle spazzolati fino all’ultima briciola, avrei portato tutto giù in ascensore e caricato le casse sul furgone, per dirigermi infine verso Mülheim e far partire la lavastoviglie. Prima delle quattro, calcolai, non sarei arrivata a casa. Significava dormire tre ore, perché l’indomani mattina presto dovevo andare al mercato all’ingrosso.

Visto che a occhio e croce non c’erano più candidati per un’ultima crème brûlée, mi recai in fondo alla sala e iniziai a raccogliere le casse per le stoviglie. Di ritorno, notai subito che il mio cannello a fiamma era sparito. L’aveva preso una delle vedove nere. Lo teneva come una pistola in una mano, nell’altra un foglio di carta. Entrambi, foglio e cannello acceso, erano puntati sul tipo con la cravatta verde, che ormai aveva attirato gli sguardi di tutti, come incantati da quella coppia nero-verde.

“È finita la cuccagna! Ecco cosa ci faccio con i tuoi contratti, figlio di un cane!” gridò la vedova furibonda, diede fuoco alla carta e gliela lanciò contro. Mentre l’uomo si scuoteva di dosso il foglio in fiamme, la donna fece un balzo verso di lui. “E tu farai la stessa fine!” sibilò brandendo il cannello acceso all’altezza del viso. Ci fu un crepitio quando il fuoco gli lambì le sopracciglia; l’odore pungente di peli bruciati appestò l’aria.

L’uomo urlò, qualcuno afferrò da dietro la donna che si divincolò in un baleno, lasciò cadere il cannello e, drizzata la schiena, si passò una mano tra i capelli neri con gesto sprezzante. Nessuno la fermò quando uscì dalla sala a passo lento come un angelo vendicatore. L’uomo nascose il viso tra le mani in un piagnucolio sommesso, poi si aprì in gran fretta la strada verso la toilette. La scena aveva lasciato tutti ammutoliti, mentre dagli altoparlanti giungevano ancora più chiare le strofe dei Bläck Fööss: “Drink doch eine met, stell dich nit esu ahn”, bevitene un’altra, non stare lì impalato.

Avrei dato a quella serata un cinquanta percento di possibilità che tutti i bancarottieri, gli spacconi, i fanfaroni, i sabotatori, le vipere e i giullari in sala avrebbero presto avvolto lo spiacevole incidente nel comodo mantello dell’oblio, per continuare a festeggiare e dondolarsi tutti contenti gli uni con gli altri. Ma quando vidi il viso di Dirk Bause capii che avevo torto.

La festa era finita. Terminata, punto e basta. In men che non si dica il volto dell’uomo prese a oscillare tra il rosso e il bianco, in un gioco di colori tipico di molti abitanti di Colonia. Dei tifosi per esempio, che in ogni giornata del campionato di calcio vivevano immersi in una piacevole corrente alternata di rossi e di bianchi, tensione e sollievo. Ma sul viso di Bause non c’era traccia di piacere, né di sollievo. Aveva l’aria di aver appena vissuto la sua Waterloo personale.

DUE

Col senno di poi si è sempre più saggi; col senno di poi si sa sempre cosa si sarebbe potuto vedere, sentire o intuire. Se alla festa di Bause avessi saputo tutto ciò che so oggi, sarei corsa dietro alla vedova nera, avrei preso di petto Minka, passato ai raggi X il nano velenoso, oppure avrei ascoltato meglio Adela. E forse allora sarei stata in grado di impedire almeno il secondo omicidio.

In passato ero convinta di saper fiutare catastrofi e disgrazie, ma adesso penso che fosse soltanto smisurata presunzione. Alle catastrofi non importa un bel niente del fiuto sottile: arrivano come aggressioni improvvise, si abbattono su di te conficcandoti pugnali nella carne, ti tolgono il terreno sotto i piedi, ti frullano il cervello, ti spezzano il cuore, ti mandano in rovina o ti tolgono la vita. Ma sempre, davvero sempre, ti colgono impreparata.

Non avevo quindi la minima idea delle nubi che si stavano addensando sopra e intorno a me quella notte, mentre caricavo in ascensore le stoviglie usate. Ero solo stanca e volevo andarmene subito a letto.

Incastrata fra le casse di piatti sporchi, l’odore sgradevole degli avanzi di cibo nel naso, scesi al pianterreno. Uscendo dall’ascensore, inciampai. Quel mio stordimento poteva dipendere dalla puzza dei rifiuti, dalla velocità dell’ascensore o dalla mia stanchezza, c’era solo l’imbarazzo della scelta. In ogni caso, dopo aver trascorso ore a quell’altezza vertiginosa, mi faceva bene poggiare di nuovo i piedi per terra. Un treno notturno passò con fracasso sul ponte Hohenzollern, un ciclista sfrecciò a tutta velocità in direzione del centro, due ratti guizzarono insolenti sulla strada. Alle due del mattino davanti alla torre LVR non c’era altro. La città dormiva. Era quello che volevo fare anch’io, ma mi ci sarebbero volute ore prima di conquistare il letto. Caricai le stoviglie sul furgone, saltai su e chiamai Ecki al cellulare. Mi avrebbe raggiunta per aiutarmi a lavare i piatti non appena quei signori avessero smesso di ordinare da bere.

“Vai, Kathi, intanto puoi iniziare. Quassù non durerà ancora a lungo.”

“Beato chi ci crede!” lanciai la frecciata al telefono prima che Ecki potesse riattaccare. Sapevo benissimo che non avrebbe fatto il minimo sforzo per arrivare da me in tempo ad aiutarmi a pulire la cucina. Giurai a me stessa che non mi sarei più lasciata persuadere così facilmente a fare un catering. Stavo per mettere in moto, quando notai nello specchietto laterale qualcosa di rosso che correva verso la mia macchina.

“Fatti più in là, tesorino!” Adela aprì di slancio lo sportello del guidatore, mi schiaffò in mano le sue décolleté e mi spinse sul sedile del passeggero. “È un sacco di tempo che non guido un’auto così grande. La retromarcia dov’è?”

Indicai il grafico sulla cloche, poggiai le scarpe sul tappetino e mi sventolai per farmi aria.

“Ho i piedi a pezzi!” gemette Adela. “Non riesco a stare ferma né a camminare su quelle cose. Non capisco proprio perché me le sono comprate.”

“Ti fanno cinque centimetri più alta. Con quelle scarpe arrivi a uno e sessantadue.”

“Uno e sessantacinque, tesorino, ma non è questo il motivo. Quando si è bassi come me, non sono un paio di centimetri a fare la differenza. No, mi hanno guardata dalla vetrina, e io ci sono cascata. Proprio come quest’abito rosso. È troppo stretto! Appena siamo al Giglio Bianco mi devi aprire la cerniera, così riesco a respirare.”

Nel frattempo Adela aveva incastrato il ventre sotto il volante, dopo aver spinto il sedile più avanti che poteva per arrivare ai pedali. Poi mise in moto e, con andatura un po’ a strappi, diresse la macchina verso l’Auenweg. Fino al ponte dello zoo restò concentrata sulla guida e non disse una parola. Sprofondai in un dormiveglia beato, da cui riemersi solo quando mi sentii strattonare per un braccio.

“Lo sai chi erano la signora in nero e il nano grassoccio?”

Adela, che adesso guidava con sicurezza l’auto non sua, sembrava fresca come una rosa, negli occhi quella sua tipica curiosità irrefrenabile. Mi sforzai di darle almeno un contentino: “Lui è un patito del cioccolato.”

“Con quella pancia non si fa fatica a crederci, ma non è sicuramente per la cioccolata che quei due hanno litigato.” Adela abbassò il finestrino con la manovella, di certo con l’intenzione di strapparmi qualche parola in più concedendomi una boccata d’aria fresca. Ma visto che non aggiungevo nulla, non si perse d’animo e continuò: “Dopo quella scenata, Betty era completamente fuori di sé! Ma hai visto quel soprabito colorato che portava? Un tantino troppo squillante per la sua età, non trovi? In ogni caso, con quella fiammata la signora in nero ha aperto un’autostrada tra le sopracciglia del nano. Sembra incredibile, ma non era niente di drammatico: non ha nemmeno avuto bisogno del medico e si rimetterà presto. Però l’atmosfera della festa è andata a farsi benedire, naturalmente. Adesso nessuno si ricorderà del bell’anniversario dell’azienda, tutti penseranno solo al lanciafiamme. Ovviamente ho chiesto a Betty su cosa avessero litigato, ma lei purtroppo non li conosce. Certo, non può mica conoscere tutti i clienti di suo marito.”

Attraverso il finestrino arrivava il profumo dei fiori di sambuco. Delicato, fresco e pungente, l’odore dell’estate in arrivo. Era la prima volta che lo sentivo quell’anno. Stavo lavorando davvero troppo. La giornata era stata così bella che sarebbe stato meglio starmene sdraiata al sole in riva al fiume, invece di accettare quello stupido catering. In ogni caso, quel profumo mi fece venire un’idea.

“Devo assolutamente aggiungere i fiori di sambuco al mio menu!”

“Mio Dio, pensi sempre solo a cucinare,” fece Adela irritata. “Proprio non ti interessa sapere cos’avevano da beccarsi quei due alla festa di Bause? Una bellezza peraltro, la signora in nero, alta, magra, il classico tipo greco; mica come il nano grassoccio.”

“Di sicuro non c’è di mezzo una storia d’amore,” borbottai.

“Non si può mai dire, tesorino. Ma lei non ha parlato di un contratto? Qualche losco affare? Si saranno incontrati per caso? Oppure la signora è entrata in scena proprio perché sapeva che avrebbe trovato il tipo grassoccio? Sicuramente voleva fargli fare una pessima figura davanti a tutti, anzi voleva proprio ferirlo. Voglio dire, chi l’avrebbe detto che sarebbe stata capace di avventarsi contro qualcuno con il cannello a fiamma? Sarebbe potuta finire anche molto peggio.”

“Di certo domani Betty Bause potrà raccontarti per filo e per segno perché quei due si sono presi per i capelli.” Non volevo più parlare della festa, in realtà non avevo più voglia di parlare in generale. Avevo solo voglia di dormire, ma prima toccava lavare i piatti, altrimenti l’indomani mattina saremmo stati nei guai.

“Devi essere proprio infuriata per scagliarti in quel modo contro qualcuno. Se escludiamo il movente passionale, allora può darsi che il ciccio le abbia truffato un bel po’ di soldi. Tu che ne pensi? Sarà un freddo giocatore d’azzardo?”

“Fiori di sambuco in pasta di birra con zabaione al vino...”

“E poi Bause! Pallido come un cencio, neanche gli fosse venuto un colpo. Non era solo irritato perché quei due gli avevano rovinato la festa. C’era sotto qualcos’altro. Perfino Betty non sa più bene quale sia la fonte di tutti i suoi guadagni. Di certo non solo il fatto di sviluppare software per Tizio e Caio. Non è così che si arriva a metter le mani su uno dei palazzi a forma di gru sul Reno. Forse rischia acquistando titoli in borsa? O si lancia in affari immobiliari da capogiro?”

“Oppure come sorbetto?”

“Va bene, Katharina,” Adela lasciò perdere e non disse più una parola finché non passammo traballando sul vecchio selciato di sampietrini lungo le scenografie della serie tv Die Anrheiner e davanti a noi si profilarono gli eleganti edifici nuovi sul Reno. Un autobus della linea 18 passò rimbombando sul ponte di Mülheim, sopra le nostre teste. “Hai poi parlato con il tipo dell’Ufficio per le acque e la navigazione, per la faccenda dell’Altalena sull’Acqua? C’era anche lui alla festa di Bause, no?”

Sì, ma io non ci avevo parlato. L’Altalena sull’Acqua! Un bistrot galleggiante sul Reno da costruire sulla riva di Mülheim: una nuova idea di ristorante mia e di Ecki. Un architetto che ideava e arredava barconi ad Amsterdam ci aveva disegnato un progetto bellissimo, su cui però non valeva la pena investire finché non si fosse ottenuta l’autorizzazione per realizzarlo.

Se barconi del genere c’erano a Rodenkirchen, allora perché non a Mülheim? Ma purtroppo la cosa non era affatto semplice, ed era proprio di quei lacci e lacciuoli burocratici che avrei dovuto parlare con il tizio dell’Ufficio per le acque e la navigazione. In modo del tutto informale, giusto per sondare il terreno. E naturalmente anche per pensare a come aggirare eventuali difficoltà.

“Non sono capace, Ecki!” mi ero lamentata.

“Dai, Kathi, lo farei io, ma io sono un pinco pallino qualunque, non sono nessuno in questa città, tu invece sei la cuoca del Giglio Bianco. Tutti sanno che da te si mangia bene. E poi sei una donna carismatica, affascinante, intelligente, e via dicendo.”

Ma davvero non ce la facevo. Al massimo potevo dire: ho in animo questo e quel progetto, si può fare o no? Odiavo salamelecchi e lusinghe, e non ero il tipo che andava a cercare raccomandazioni. E in realtà Adela lo sapeva benissimo, ma per questo splendido progetto avrei dovuto fare un’eccezione, perché era probabile che altrimenti non se ne sarebbe fatto niente. Forse, però di sicuro non in quell’occasione. “Oppure uno sciroppo di sambuco al latticello per condire un sushi di salmone?”

“Non gli hai parlato,” sospirò Adela, che nel frattempo aveva svoltato in Keupstraße e stava parcheggiando la macchina davanti al Giglio Bianco. “Facciamo i piatti, così puoi finalmente andare a letto. Su, apri la porta!”

Lo feci, e insieme trascinammo le stoviglie sporche dall’auto in cucina.

“A proposito, grazie,” le dissi, facendole scorrere giù la cerniera lampo.

“Ah, ci voleva!” sospirò lei sollevata, mentre la sua pancia finalmente si rilassava. Poi mi accarezzò ancora la mano, perché aveva accarezzato mani per tutta la vita. “Lo faccio volentieri, adesso che non devo più alzarmi presto,” mormorò come facendo le fusa.

E naturalmente era vero. Per essere oltre i sessanta era sfacciatamente in forma, anche se ogni tanto si lamentava della schiena e delle ginocchia fuori uso.

“Colpa del lavoro usurante, tesorino. Cosa credi, non sai quanti neonati ho preso in braccio. Ma non voglio parlare degli acciacchi, adesso mettiamoci all’opera!”

Si legò un grembiule a coprire le paillettes rosse, e con una spugnetta iniziò a strofinare il grosso delle incrostazioni dalle stoviglie. Poi caricai i piatti nel cestello della lavastoviglie e l’avviai. Nel giro di pochi minuti eravamo lì a svuotare e riempire di nuovo, poi ancora svuotare e riempire. Ci davamo dentro, come una squadra affiatata.

Avevo avuto una gran fortuna, anni fa, quando lavoravo da Spielmann al Bue d’Oro e, in cerca di una stanza, ero finita da Adela. Un’amica come lei non si trova facilmente. E non solo perché adesso stava lì con me a lavare piatti sporchi nel bel mezzo della notte, senza chiedermi un centesimo. Mentre l’ennesima lavastoviglie sferragliava, andammo di corsa alla macchina a prendere l’ultimo carico di piatti: ce l’avevamo fatta, pensai. Ma mi sbagliavo.

Forse per tutti arriva un momento in cui ci si sente sfiorare dal soffio gelido della morte. Anche a noi capitò, quando quella notte vedemmo avvicinarsi lentissimo un carro funebre che veniva dalla Mülheimer Freiheit e che si fermò proprio dietro il nostro furgone. Sulla carrozzeria nera si leggeva in lettere dorate: “Onoranze funebri Maus”.

“Una Cadillac Fleetwood del ’66,” mormorò Adela. “Un’auto magnifica.”

“Irmchen Pütz, oppure Egon Mombauer,” mormorai io, raggiungendo la casa di riposo, e da lì gettai uno sguardo verso il nostro edificio. Sia nella camera di Irmchen Pütz che all’ultimo piano in quella di Mombauer c’era la luce accesa, alle due e mezzo di notte. Non era un buon segno. Ma nutrivo ancora una piccola speranza di sbagliarmi.

“Condoglianze,” disse il funzionario delle pompe funebri guardando Adela e porgendole la mano. “Dove dobbiamo andare?”

“Ora mi chiede troppo.” Adela volse lo sguardo verso di me.

“Non siete state voi a chiamare?”

Mentre in silenzio facevamo segno di no, Irmchen Pütz uscì zoppicando in strada col suo bastone, avvolta in una vestaglia a fiori vecchio stile. Quella fantasia floreale non si addiceva né alla donnina raggrinzita, né al carro funebre.

“Mombauer, secondo piano,” bisbigliò tutta agitata indicando con il bastone. “Il medico di guardia è ancora lì.”

Il funzionario delle pompe funebri girò le condoglianze a Irmchen, ma lei scosse la testa: in fondo non era parente, né diretta né indiretta. Allora il signor Maus, se era quello il suo nome, fece un segno al suo collega ancora seduto in macchina e insieme estrassero una bara dal retro; facendosi tenere aperta la porta da me, portarono l’enorme cassa su per la scala bilanciandola tra loro.

Mombauer! Non era una buona notizia, proprio no. Due giorni prima mi era sembrato ancora così in gamba, per quanta salute potesse avere un ottantenne. E in più era tenace e caparbio.

“Ha fatto un rantolo terribile,” mi disse Irmchen Pütz. Era visibilmente sollevata nel trovarsi davanti un volto familiare e poter raccontare finalmente tutto quanto. “Così forte che mi ha svegliata. Poi c’è stato un silenzio totale, e mi sono chiesta se era stato davvero un rumore quello che avevo sentito. Poi ho pensato che era meglio andare a vedere.” Irmchen ansimava mentre la guidavo spingendola delicatamente in direzione del ristorante e della cucina, e Adela ci seguiva con una cassa piena di piatti da lavare tra le mani. Feci sedere l’anziana signora su uno sgabello della cucina, Adela mise i piatti in lavastoviglie e preparò l’acqua per il tè. “Il tè aiuta sempre”, era uno dei suoi motti.

“Lo sai, Katharina, un anno fa lo avevo trascinato a una serata organizzata dalla parrocchia: Terza età: la prevenzione. Mombauer ha cinque anni più di me. All’inizio non voleva venire, gli uomini non vogliono mai partecipare a incontri del genere. Pensano sempre che riusciranno a cavarsela da soli.”

“Per favore, vieni al punto, Irmchen.” Quantomeno valeva la pena tentare di abbreviare il discorso. L’ultima lavastoviglie stava andando e io volevo davvero correre a casa.

“Hanno detto soprattutto che bisogna prendersi cura gli uni degli altri,” continuò lei imperterrita, “e perciò Mombauer e io ci siamo scambiati le chiavi dei rispettivi appartamenti, in caso succedesse qualcosa. Alla nostra età non c’è mai nessuno...”

“E allora sei salita su con le sue chiavi?”

“Non volevo fare la figuraccia di chiamare l’ambulanza per niente, mentre magari lui se ne stava lassù a ronfare beato ed era stato solo un sogno, e io lì impalata come una vecchia rimbambita.”

Annuii. In realtà Irmchen non era impicciona e nemmeno pettegola. Era l’agitazione che la faceva parlare così a raffica. Tutto comprensibile, ma non avevo intenzione di passare con lei il resto della notte.

“E così l’hai trovato?”

“Prima mi sono attaccata al campanello e, quando ho visto che tutto taceva, sono entrata. Era sdraiato davanti alla porta del bagno, forse voleva andare a fare la pipì. Noi anziani siamo un po’ deboli di vescica. Il medico di guardia è arrivato in men che non si dica. Stanotte nella casa di riposo di fronte c’è stato anche qualcun altro che ha passato il Giordano. Magari la signora con la falce avrà pensato: ne prendo anche un altro, così non dovrò tornare così presto a Mülheim.”

“È stato il cuore?” chiese Adela porgendo a Irmchen una tazza di tè, con quella curiosità di nuovo nello sguardo.

“Arresto cardiaco,” confermò Irmchen. “Una bella morte. Se potessi scegliere, sarebbe la mia preferita.”

“Ed era da solo?”

Lanciai a Adela un’occhiata di rimprovero. Non mi piaceva giocare ai detective. Pensando a Mombauer, mi assalivano altre preoccupazioni. Adesso mi rendevo conto che l’ultima volta che l’avevo incontrato non avevo battuto il ferro finché era caldo!

“Ovvio che era da solo!” Irmchen sgranò gli occhi meravigliata che qualcuno potesse pensare il contrario. “E chi ci sarebbe dovuto essere con lui? Sabine passa al massimo a Natale, e i suoi commilitoni, i membri dell’associazione degli Schützen, solo il giorno del suo compleanno. Era un vero eremita, non è vero Katharina?”

Annuii. Ogni tanto, quando ci incontravamo per caso per strada o sulle scale, Irmchen portava il discorso su di lui e a volte aveva accennato a una storia famigliare tragica, ma non si era lasciata sfuggire niente di più preciso. Appunto, non era pettegola, anzi era molto discreta.

“E l’appartamento? C’era qualcosa di diverso dal solito?” continuò Adela imperterrita.

“Che lei ci creda o no, non sono mai stata su da lui. Il nostro rapporto non prevedeva inviti a prendere il caffè insieme.” Irmchen buttò giù un sorso di tè e fece un cenno con la testa verso Adela, la quale ovviamente lo interpretò come un invito a proseguire.

“Ci sono sempre cose che saltano subito agli occhi, anche in un appartamento estraneo. Una sedia rovesciata, uno spruzzo di sangue sulla parete...”

“Sangue? No, non c’era sangue.” Irmchen era sicurissima.

“Magari un bicchiere rovesciato?” chiese Adela.

Mentre l’anziana scuoteva la testa, io toglievo rumorosamente gli ultimi piatti dalla lavastoviglie e li riponevo con un gran fracasso nell’armadio delle stoviglie. Un’inutile manovra di disturbo. Adela, in forma smagliante, avrebbe estorto a Irmchen l’intera storia della vita di Mombauer, e sarebbe rimasta a sedere con lei fino all’alba nella mia cucina, se non mi fosse venuto in mente un modo per farla tacere e per far rientrare Irmchen nel suo appartamento.

Il funzionario delle pompe funebri, apparso d’improvviso in cucina, offrì la soluzione. “Abbiamo finito. I parenti più prossimi? Potete aiutarci?”

“Naturalmente!” Irmchen annuì zelante. “Mombauer ha una sola figlia, Sabine. Il cognome è sempre Mombauer, non si è mai sposata.”

“Indirizzo? Numero di telefono?”

“Ce li ho di sopra. La cosa migliore è che mi accompagniate. Così non mi tocca salire le scale un’altra volta.” La donna si alzò, afferrò il bastone e ci si appoggiò. “Grazie per il tè,” disse a voce alta prima di sparire su per le scale con il funzionario delle pompe funebri.

“Dici che possiamo lasciarla sola?” chiese Adela con aria preoccupata.

“Altroché! Irmchen ha la sua cerchia di amiche della chiesa. Se non vuole stare da sola, ha solo da alzare il telefono. Via, a casa!” La trascinai fuori dalla cucina, spensi tutte le luci e chiusi il Giglio Bianco.

Questa volta Adela si mise docile sul sedile del passeggero e lasciò a me il volante. Avviai il motore.

“Lo sai quanti anziani vengono uccisi senza che nessuno se ne accorga? Perché spesso i medici rilasciano il certificato di morte senza tante analisi. Si dovrebbe almeno fare qualche altra indagine più approfondita,” proclamò per giustificare la sua valanga di interrogativi.

“Ma la maggior parte di loro muore di morte naturale,” ribattei e stranamente la mia amica non replicò. Con la coda dell’occhio vidi il motivo. Stava facendo uno sbadiglio dopo l’altro, e quando svoltai in Kasemattenstraße si era già addormentata. In compenso io, che avevo superato tutti gli ostacoli di quella notte e potevo finalmente sprofondare nel letto, non mi sentivo più stanca. “Scendere dall’auto,” ordinai a voce alta.

“Non vuoi prima parcheggiare?” farfugliò lei, quando si accorse che eravamo arrivate.

“No. Vado direttamente al mercato. Poi potrò buttarmi a dormire un paio d’ore.”

Aspettai che Adela aprisse la porta di casa, le décolleté strette sottobraccio, poi mi allontanai.

Una delicata velatura grigia annunciava il termine della notte e una brina argentata ammantava il Reno. Il ponte di Deutz era tutto per me. Dall’altro lato del fiume si innalzavano sull’acqua gli imponenti edifici a forma di gru; alle loro spalle, la catena montuosa del Siebengebirge baluginava nella luce fioca dell’alba. Di rado Colonia era così bella come nelle prime ore di quelle giornate estive, quando la città mostrava l’eleganza di una signora invecchiata con dignità e molto ricettiva di fronte al nuovo.

Quella mattina però la bellezza di quella vecchia signora non mi interessava un fico secco, era la faccenda di Mombauer a darmi da pensare. Non la domanda se fosse stato ucciso o no. Quando una persona di ottantun anni muore per arresto cardiaco andando a fare la pipì, per me era tutto chiaro, non c’era proprio nulla da allarmarsi, per quante trame potesse immaginare Adela. Non erano le circostanze di quel trapasso a preoccuparmi, bensì il puro e semplice fatto che Mombauer fosse morto.

Era il proprietario a cui pagavo l’affitto per il Giglio Bianco. E benché sapessi che un contratto non perde validità per la morte del proprietario, il mio sarebbe scaduto proprio alla fine del mese. Appena un paio di giorni prima Mombauer mi aveva offerto un rinnovo di dieci anni, ma io conoscevo bene gli eterni alti e bassi della gastronomia, avendone fatto dolorosa esperienza, e non volevo farmi bloccare per così tanto tempo. Cinque anni, gli avevo proposto; tuttavia, visto che non eravamo riusciti a metterci d’accordo, avevamo rimandato la decisione. E ora, ecco qua. Cosa sarebbe successo se gli eredi non avessero voluto tenere la palazzina di Keupstraße, se avessero deciso di venderla? E se avessero chiesto una cifra inverosimile per l’affitto? In entrambi i casi avrei avuto una ben misera base di contrattazione.

Guardando indietro, realizzo che la preoccupazione per il Giglio Bianco mi aveva resa cieca e sorda a tutto quello che succedeva intorno a me.

È questo l’aspetto subdolo delle catastrofi: per potersi abbattere con tutta la violenza possibile, amano farsi precedere da una piccola sventura. E mentre uno s’impegna con tutte le sue forze per contrastarla, le catastrofi schierano l’artiglieria pesante lavorando indisturbate nelle retrovie.

Ecki si fece vivo quando il primo semaforo rosso mi fece fermare davanti al Museo della cioccolata.

“Abbiamo finito ora. Come va da te? Hai ancora bisogno di me?”

“Mombauer è morto,” buttai lì a bruciapelo. “Arresto cardiaco. Si è accasciato a terra.”

“Accidenti, non hai firmato il contratto,” disse Ecki puntando subito al nocciolo del mio problema. “Ma chissà, forse c’è anche un risvolto positivo.”

Per me non ce n’era nemmeno uno.

“Non ti buttare giù, Kathi! Sei un’affittuaria solvente, con un locale ben avviato. Una come te la gente la tiene, non la caccia via. E se la cosa non va, ti inventerai qualcosa di nuovo. L’Altalena sull’Acqua, il catering, che ne so! Nella vita si va sempre avanti.”

Ecki e il suo incrollabile ottimismo! Certo che poteva continuare a cianciare, tanto con il Giglio Bianco lui non c’entrava niente. L’avevo messo su io da sola, quando il nostro sogno di un ristorante insieme era andato a monte. Avevo acceso dei prestiti che non avevo ancora ripagato, avevo lottato contro condizioni iniziali avverse, mi ero conquistata uno zoccolo di clienti abituali e mi ero fatta un nome come cuoca. Mi era costato sudore e lacrime, giornate di lavoro infinite e notti insonni. Una cosa del genere non la si abbandona a cuor leggero.

“Ci sarà una strada, Kathi, ce n’è sempre una. Non ti fasciare la testa prima di essertela rotta. Le ipotesi restano del tutto aperte.”

A volte Ecki riusciva a contagiare anche me con quella sua tipica leggerezza salisburghese, come in quel momento. Perché pensare sempre al peggio? Magari mi sarei accordata rapidamente con gli eredi di Mombauer. Magari sarei riuscita perfino a trattare sul prezzo. Un po’ rasserenata, continuai a guidare verso il mercato all’ingrosso.

La città dormiva ancora, nelle prime luci del mattino le strade di Colonia erano vuote di macchine e di persone, la fermata della metropolitana su Bonner Straße deserta e nel blocco di cemento grigio all’angolo con Schönhauser Straße era ancora tutto spento. Dirimpetto, però, al mercato, la giornata era iniziata già da un pezzo.

Camion olandesi sputavano fuori i loro carichi, carrelli elevatori facevano la spola tra i padiglioni a un ritmo folle, nei tombini marcivano cespi d’insalata scartati, il manto stradale era completamente rivestito di pomodori schiacciati.

Nell’ampio mercato coperto passai in fretta accanto a montagne di rabarbari e cavoli appuntiti, e oltrepassai cataste di fragole alte qualche metro. Dovevo schivare di continuo quegli agili muletti a mano con cui la merce veniva trasportata di qua e di là nelle varie zone. L’attività così frenetica non nascondeva però gli spazi vuoti del mercato, che si andavano moltiplicando. Era da tempo ormai che non si facevano grandi affari. I discount acquistavano comprando alle aste di Straelen o di Venlo, non certo qui. I grossisti cercavano di restare a galla con i mercati settimanali e i ristoranti, ma erano sempre più numerosi quelli che gettavano la spugna.

La mia prima meta fu il chioschetto nel padiglione grande. Senza un caffè nello stomaco non sarei stata in grado di contrattare. In passato mi fermavo a bere il caffè nella galleria al piano di sopra, quando lì c’era ancora il ristorante con la sua ampia vetrata dalla quale si poteva seguire lo svolgimento degli affari di sotto.

Che frastuono e che brulichio! I gestori dei banchi e i loro clienti si mescolavano con i nottambuli della città. La galleria era stata a lungo l’unico ritrovo di Colonia in cui si poteva mangiare una cotoletta impanata anche alle cinque del mattino. Era il posto dove si concludevano gli affari e si festeggiavano gli addii al celibato, si litigava sui prezzi e si risolvevano le dispute filosofiche, dopo che i bar in Zülpicher Straße avevano chiuso. L’aria era gravida di tabacco, alcol e caffè, il pubblico rumoroso e variopinto, le cotolette erano unte e pesanti, le cameriere navigate avevano sempre la risposta pronta. Questa era la vita nel ventre della città!

Ma già da alcuni anni purtroppo la galleria aveva chiuso per via dell’attività poco redditizia, proprio come quella del mercato, e tutto era in declino. Discount e catene di supermercati erano i nuovi signori del settore alimentare. Erano loro a determinare prezzi e merci, adattando l’assortimento alle loro esigenze. Cavolfiori sì, broccoletti no, solo tre varietà di mele e al massimo due varietà di patate, fragole a quintali, ma in compenso i ribes erano quasi scomparsi...

“Signora del Giglio, ho degli asparagi spettacolari come non ne avevo da un pezzo, farebbero proprio al caso suo!” sentii una voce chiamarmi in dialetto renano.

Kurt Berger si era avvicinato al bancone e stava ordinando anche lui un caffè. Avevo stima di quell’uomo anziano e non solo per via della bontà delle sue verdure. A differenza di altri venditori, nei miei periodi di crisi non mi aveva fatto pressione per il pagamento delle fatture, aveva aspettato a lungo, anche quattro settimane.

“Vengo subito a dare un’occhiata,” risposi. “Devo svegliarmi ancora un po’, altrimenti finisco per terra addormentata. Al contrario di lei, io stanotte non ho chiuso occhio.”

“Un festino privato fino all’alba?”

“Un catering alla torre LVR,” dissi alzando gli occhi al cielo.

Berger annuì comprensivo. “Deve stare attenta a non rimanere indietro. La gente non spende più con tranquillità, preferisce comprarsi un piatto pronto da Aldi piuttosto che andare a mangiare fuori. E a Colonia hanno già chiuso due ristoranti: il Cielo sulla Terra e Sale & Pepe. Entrambi con posizione ottima nel quartiere belga e nella zona sud, e malgrado questo sono falliti. Lo sa cosa c’è al posto loro adesso? Un All-inclusive, una roba che ora va di moda, una specie di McDonald’s più chic! Proprio così, quello che da noi al mercato è ormai da tempo la prassi, per lei inizia adesso. I grandi schiacciano i più piccoli.”

“Be’, adesso non bisogna sempre pensare al peggio!” accartocciai il bicchiere di carta vuoto e lo buttai nel cestino. Era ora di pensare alle mie compere.

“Mi creda, sarei felice come una pasqua se mi sbagliassi. Non dimentichi gli asparagi!” mi gridò dietro.

Ma per prima cosa andai dal signor Coldini a vedere che assortimento aveva di erbe aromatiche dall’Italia, e se c’erano già quei magnifici pomodori cuore di bue. Non c’erano ancora, ma in compenso aveva asparagi verdi selvatici, insalata verde, piselli freschi, spinaci teneri e funghi cardoncelli che sembravano dipinti.

“Perfetto, signora...” stava dicendo Coldini in italiano. Il movimento delicato con cui prese dalla cesta uno dei funghi, lo girò e rigirò come fosse una pietra preziosa allo stato grezzo, quel suo modo di chiudere gli occhi mentre li annusava: adoravo tutto questo perché, anche se faceva la commedia, intuivo la passione per la bontà dei prodotti. Nessuno sa esprimere questa passione meglio degli italiani.

Passando oltre, arrivai da Harun Üzümcü, il sovrano indiscusso di frutta secca, noci e nocciole. Mi servivano albicocche secche e pinoli, e sì, presi anche delle bacche di crespino, che lui si mise a decantare nei toni più entusiasti.

Il banco della frutta di Mathilde Kleber era la fermata successiva. Aveva tre qualità diverse di rabarbaro e fragole fresche direttamente da Bornheim, dolci come lo zucchero. Le ciliegie invece avevano ancora bisogno di un paio di giorni di sole, magari le avrei prese la settimana successiva.

Visto che nel frattempo avevo continuato ad assaggiare asparagi bianchi senza comprarne, terminai il mio giro al banco di Berger. Premetti l’unghia del pollice sulla parte tagliata di un turione e ne uscì subito del liquido, poi lo spezzai in due e diedi un morso. Berger non aveva esagerato, non sarei riuscita a trovare asparagi bianchi più freschi e di qualità migliore di quelli.

E poi lui aveva in offerta anche l’acetosella e la portulaca, per non dimenticare i ravanelli francesi bianco-rossi e le patatine novelle. Contrattammo su prezzo e quantità, poi come sempre giungemmo a un accordo e io mi diressi verso l’altra zona del mercato per andare a scegliere il pesce. La carne non la compravo lì. Proprio di fronte alla porta di casa mia, in Frankfurter Straße, avevo scoperto un macellaio che trattava solo animali da allevamenti controllati, ed era sempre disposto a venirmi incontro, se avevo desideri particolari.

Verso le sei il mio furgone era carico e mi avviai verso casa. A quell’ora la strada che costeggiava il Reno era già piuttosto trafficata: pendolari dalle campagne limitrofe, camion con merci destinate alla città, ciclisti mattinieri che andavano al lavoro. In corrispondenza delle strisce si radunavano i primi pedoni. I mezzi per la pulizia delle strade si esibivano in un elegante slalom tra i bidoni dell’immondizia e i pali dei lampioni. Davanti a me, un camioncino arancione della nettezza urbana di Colonia appestava l’aria, carico dei rifiuti della città. Me lo sarei potuto lasciare alle spalle appena avessi svoltato sul ponte Severin.

La brina mattutina si era ritirata dalle sponde del fiume e i primi raggi di sole si specchiavano sull’acqua. Sull’altro lato del Reno, gli operai del primo turno si davano da fare intorno alle impalcature del grattacielo Lufthansa. Dalla Deutzer Freiheit mi arrivò il profumo fragrante del pane appena sfornato.

La città si svegliava. Io, invece, sarei andata a dormire.

Mentre salivo le scale del nostro appartamento in Kasemattenstraße, ripensai a Mombauer. Dovevo stordirmi con qualcosa per scacciarmi dalla testa il pensiero di quello stupido contratto di affitto. Una birra mi avrebbe fatto bene.

Purtroppo però il nostro frigorifero aveva una sola bevanda da offrire: il tè freddo alla pesca di Adela, la sua bibita preferita non appena il termometro iniziava a segnare più di venti gradi. A quel liquido dolciastro potevo avvicinarmi solo in casi di estrema necessità. Rovistai allora nella dispensa e riuscii a pescare una bottiglia di vernaccia, di quelle che Kuno portava sempre con sé di ritorno dalla Svevia.

Mentre in cortile gli uccellini cinguettavano alle prime luci del mattino, io bevevo vino a piccoli sorsi, in attesa che mi distraesse dal pensiero di Mombauer e facesse risalire la stanchezza che prima avevo represso. Ma la vernaccia non voleva saperne di mettere i miei pensieri fuori combattimento, neanche dopo il secondo bicchiere, così decisi di provare a sdraiarmi e a chiudere gli occhi, e sgattaiolai nella mia stanza.

Dalle tende bianche e pesanti filtrava già la luce del mattino, ma in camera regnavano ancora il calore della notte, il ticchettio della sveglia e il lieve russare di Ecki. Mi accucciai accanto a lui che dormiva, e lui mi cinse subito con un braccio, poggiando con dolcezza una mano sul mio seno destro. Sapeva di sole e di fieno fresco: doveva essere stato proprio quel profumo di campagna estiva a farmi subito innamorare, quella volta a Vienna.

Era davvero già passato quasi un anno da quando Ecki viveva con me? Come volava il tempo, e con che rapidità un fatto sensazionale diventa quotidiano! Quando ero tornata dalla Foresta Nera, dopo la morte di zia Rosa, Ecki era rimasto con me una settimana più del previsto. Poi due.

A un certo punto mi aveva annunciato di aver mollato il lavoro al ristorante di Tokyo, dove in qualità di poissonnier aveva cercato di perfezionare le sue conoscenze sul sushi. Siccome in quel periodo stavo cercando qualcuno che sostituisse Eva in maternità, alla fine a dare una mano in cucina e ai tavoli era venuto lui.

Ecki, l’eterno viaggiatore e giramondo! In realtà era stato un miracolo il fatto che, dopo il disastro della separazione a Bruxelles e l’interminabile tira e molla, fossimo riusciti a riavvicinarci e ora vivessimo insieme come una coppia. Non l’avrei mai detto.

In fondo ne avevamo combinate di cotte e di crude in tutti quegli anni! Tradimenti, liti furibonde, contrasti insensati, viaggi solitari e sconsiderati, disattenzioni reciproche, l’intera gamma dei peccati possibili in una relazione. Non volevo più rivangare il passato. Perdonare e dimenticare, ecco.

Certo, c’erano ancora motivi per cui non smettevamo di accapigliarci, ma come coppia avevamo trovato una strada percorribile, e tranquilla. E andava bene così, perché avevo già fin troppo da fare per mettermi a dissodare di continuo il campo dell’amore. Annaffiare regolarmente e concimare, ogni tanto strappare le erbacce, era così che vedevo la nostra relazione.

Mi spinsi ancora più vicino al corpo caldo di Ecki, mi misi a respirare al ritmo del suo sonno e scivolai finalmente nel regno dei sogni.

Il giorno iniziò con il solito strepito della sveglia, come un mattino qualunque nell’appartamento in cui vivevamo in quattro. Erano ormai quasi otto anni che Adela e io abitavamo insieme. Un paio d’anni prima lei si era innamorata di Kuno e, quando il commissario svevo era andato in pensione, pure lui si era trasferito da noi. In tre andavamo talmente d’accordo che per me non si poneva affatto il problema di cambiare casa. Poi era arrivato Ecki, a completare il nostro quadrifoglio.

Quando alla fine soffocai il grido della sveglia, Ecki dormiva ancora come un sasso.

“Via, fuori dalla bambagia, dobbiamo andare a lavorare!”

Lo scossi, ma senza alcun risultato. Mentre strisciavo fuori dal letto, lui si tirò la coperta sulla testa e si girò dall’altra parte. Ogni giorno la stessa storia. Spettava sempre a me andare in bagno per prima. Kuno l’aveva usato prima di me, e come al solito aveva lasciato il suo lago mattutino.

“Kuno!” sbraitai attraverso il corridoio.

“È dal fornaio,” urlò Adela in risposta.

Quindi toccò a me asciugare le piastrelle per l’ennesima volta, prima di riattivare le sinapsi con l’acqua fredda per poter affrontare la giornata. Poi spinsi Ecki fuori dal letto, mi infilai l’accappatoio ed entrai incespicando in cucina, a piedi nudi e con i capelli bagnati.