Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.
Della stessa autrice:
Revolver. Le ragazze del porto di Amburgo
La notte del coccodrillo
Titolo originale: Beton Rouge
© Suhrkamp Verlag Berlin 2017
© 2019 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati
Prima edizione: settembre 2019
Impaginazione: Rossella Di Palma
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck
ISBN 978-3-96041-576-3
Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Viale della Piramide Cestia 1c
00153 Roma
www.emonsedizioni.it
UOMINI IN GABBIA
Un altro caso per la pm Chas Riley
Traduzione di Franco Filice
Per Neville Paciock
Der Himmel ist grau,
Die Häuser sind noch grauer,
Herzlich willkommen in Grauen an der Trauer,
Blicke schreien mich an: “Du bist hier fremd”,
Rotklinkerhäuschen, Garten aus Zement,
Für jedes Problem ein alkoholisches Getränk,
Während sich die Lebensfreude auf dem Dachboden erhängt,
Geh’ durch die Straßen ohne Farben, ohne Leben,
Beißende soziale Kälte bläst mir entgegen,
Hier kuck, mein Sohn, wie traurig alles endet,
Ohne Migration, vollkommen unterfremdet,
Bin hier gestrandet wie ein Schiffbrüchiger,
Der noch nicht mal genug Weed fürn Spliff übrig hat.
Absolute Beginner, Nach Hause
(dall’album Advanced Chemistry, 2016)*
Scaraventai la scatoletta nella spazzatura, aprii una bottiglia di birra e mi accesi una sigaretta. Da qualche parte un bollitore si mise a fischiare, facendomi a fettine il cervello.
Poi suonò il telefono. Mi trascinai fin lì e alzai il ricevitore.
Jakob Arjouni, Happy birthday, turco!**
* Il cielo è grigio, / le case, ancora più grigie, / benvenuti in Grigionia, / gli sguardi mi urlano in faccia: “Tu qui sei uno straniero,” / casette di mattoni rossi, giardino in cemento, / per ogni problema una soluzione alcolica, / mentre la gioia di vivere si impicca in soffitta, / attraverso le strade incolori, senza vita, / un freddo sociale pungente mi fa rabbrividire, / guarda, figlio mio, com’è desolata questa fine, / senza migrazione, totalmente senza stranieri, / sono spiaggiato qui come un naufrago / senza nemmeno l’erba per uno spinello.
** Traduzione di Gina Maneri, Marcos y Marcos, Milano 2009, p. 13.
Muri di pioggia nella notte. Cadono dal cielo come specchi e riflettono e deformano i lampeggianti blu della volante.
Tutto gira in cerchio.
La strada sbuca dall’oscurità e si perde tra le luci del porto, ed è successo proprio lì al centro, dove inizia una discesa abbastanza ripida: una ciclista.
Giace tutta contorta sull’asfalto. I suoi capelli, di un biondo rossiccio, incorniciano teneramente la testa come fossero un piccolo lago, il vestito chiaro è sporco di sangue, sangue che sembra fuoriuscire da un fianco. Il piede destro è infilato in una scarpetta nera, una specie di ballerina, quello sinistro è completamente escoriato. La bicicletta è a qualche metro di distanza, sullo spartitraffico erboso, sembra che qualcuno l’abbia gettata lì.
La donna non si muove, solo la gabbia toracica trema disperata, sale e scende e poi si ferma. Il corpo è alla ricerca di aria.
Due sanitari del pronto soccorso sono chini su di lei e le parlano, ma non si direbbe che le parole arrivino a destinazione. Non si direbbe che ci sia qualcosa che può arrivare a destinazione. La morte se la sta portando via.
Due poliziotti transennano il luogo dell’incidente, sui loro volti ballano le ombre. Di tanto in tanto passa una macchina che gira piano intorno a loro. Le persone a bordo delle auto preferiscono non guardare troppo da vicino.
I medici armeggiano con le cassette del pronto soccorso, poi le chiudono e si alzano.
È andata.
Ecco, pensa Dio con un’espressione solerte, anche questa è fatta. Prende la sua matita mordicchiata, mette una spunta sulla ciclista e cerca di capire quale sarà la prossima vita con la quale giocherà a pallone.
Io penso: non sono in servizio. Stavo solo andando in un pub.
Ma già che ci sono…
“Salve,” dico.
Cos’altro dovrei dire di strabiliante?
“La prego di allontanarsi,” mi risponde il più corpulento dei due poliziotti di pattuglia. Si è calato il berretto d’ordinanza sulla faccia, gocce di pioggia luccicano sui baffi neri. L’altro mi ha girato le spalle e telefona.
“Certo, posso allontanarmi,” rispondo, “ma posso anche restare qui e occuparmi di un po’ di cose.” Gli allungo la mano. “Chastity Riley, della procura.”
“Ah.”
Prende la mano che gli porgo, ma non la scuote. È come se la tenesse, piuttosto, o almeno così mi sembra. Perché è così che si fa in queste circostanze, quando qualcuno è appena morto, perché se ne va anche un pezzetto di ciò che siamo e tutto comincia a vacillare. Il poliziotto grosso e io ci guardiamo un po’ impacciati e smarriti.
“Dirk Kammann,” dice presentandosi. “Davidwache, stazione di polizia di Sankt Pauli. Il collega sta informando la Kripo.”
“Okay,” dico.
“Okay,” mi fa eco lui ritraendo la mano.
“Investita da un’auto pirata?”
“Sembrerebbe di sì. Non penso che la ragazza si sia maciullata da sola.”
Annuisco, annuisce anche lui, non parliamo più, ma rimaniamo ancora un po’ l’uno accanto all’altra. Quando arriva la berlina blu scura con i colleghi della Kripo della Davidwache, saluto e vado via, ma prima di svoltare l’angolo mi giro un’ultima volta. Su quello scenario illuminato a giorno è steso un velo grigio, e non è dovuto alla pioggia, e una volta tanto non è dovuto nemmeno alla pioggia incessante che ho in testa. Non è il mio personale grigio scuro, è un grigio universale.
Telefono a Sberla e gli dico che oggi non se ne fa niente. Non ho più voglia di pub.
Poi vado a casa, mi siedo alla finestra e affondo lo sguardo nella notte.
La luna non ha una bella cera.
Ha una faccia da scemo. Perché si sta cagando sotto.
Prima l’ho spogliato, poi l’ho legato. Lui naturalmente non voleva. Nessuno lo vuole. Vorrebbe invece sapere il motivo di ciò che gli sta succedendo. E me lo chiede, di continuo. Da quando si è risvegliato, mezz’ora fa, non fa altro che porre domande.
Ma io non glielo dico.
Non sempre bisogna conoscere i motivi di una determinata azione: ho tra le mani un bastone, un bruciatore a gas, una sega.
Per ora gli rifilo una bella dose di cloroformio, così non rompe più le scatole. Basta lamentele e domande stupide.
Poi si vedrà.
Una cappa di foschia grava sulla città, l’ha lasciata la pioggia della scorsa notte. Fa troppo caldo, al mattino quasi venti gradi, ed è già fine settembre.
Sono sul balcone e bevo caffè, circondata da quel nebbione. All’orizzonte le gru sono sparite, divorate dall’aria pesante, dal porto si sentono solo le grida dei gabbiani, insolitamente nitide e quasi troppo ravvicinate, come se da un momento all’altro potessero seccarsi di essere gentili e decidere di beccare qualcuno sulla fronte, magari proprio me.
Sono da poco passate le nove. Dovrei andare in ufficio.
E allora perché non vai?
Riporto in cucina il caffè ormai freddo che in parte ho versato per terra, sgancio dal guardaroba, per ogni evenienza, una giacca di pelle leggera e mi avvio.
Respirare quella foschia, che sembra assorbire come una spugna lo smog della metropoli, è un po’ come fumare. Mi accendo una sigaretta. Se proprio mi devo intossicare, tanto vale farlo come si deve, negli ultimi giorni ho fumato troppo poco, non va bene, e anche tutto il resto deve cambiare.
Al terzo tiro mi squilla il telefono, rispondo controvoglia: “Riley.”
“Buongiorno, signora Riley. Sono Kolb.”
La procuratrice capo. A volte le sono simpatica, a volte no. A seconda del momento. Non si sa mai di che umore è.
“Buongiorno, dottoressa Kolb. È successo qualcosa?”
“Sì, avrei qualcosa per lei.”
Continuo ad attraversare le nubi cadute dal cielo e mi viene da pensare all’incidente di ieri sera. A esser sinceri, penso continuamente all’incidente di ieri sera.
“Qualcuno che si è dato alla fuga dopo un incidente?”
“No. Come le viene in mente?”
“Così,” rispondo, faccio un altro tiro dalla sigaretta e poi la butto via. A volte vengo coinvolta nelle indagini in corso, altre volte no. Sono curiosa di sapere cosa vuole.
“Dove si trova in questo momento?”
“Sono per strada, sto venendo in ufficio.”
“A piedi?”
“Come sempre.”
“Allora giri a destra senza dare troppo nell’occhio e si diriga verso il porto,” dice. “Da Mohn & Wolff c’è un uomo in una gabbia, proprio davanti all’ingresso principale. I colleghi della stazione di polizia competente stanno cercando di tirarlo fuori.”
Mi fermo.
“Un uomo in una gabbia?”
“Non so altro,” dice, e la sua voce tradisce impazienza. “La notizia è fresca. Il commissario Stepanovic dell’Ufficio regionale di polizia 44 mi ha telefonato dicendomi che vorrebbero occuparsi loro del caso. Si sta recando sul posto, ma è imbottigliato nel traffico e gli ci vorrà ancora un po’. Lei cominci a dare un’occhiata, la faccenda potrebbe avere rilevanza pubblica e di conseguenza un impatto politico.”
Annuisco e riattacco dimenticandomi come quasi sempre che al telefono un cenno del capo non si sente, ma la dottoressa Kolb non è una che dà molta importanza ai convenevoli. Forse è proprio questo il tratto caratteriale che più ci accomuna.
Un uomo in una gabbia davanti al più grande gruppo editoriale di Amburgo. Di primo acchito mi viene da pensare più a una bizzarra forma di guerrilla marketing che all’“impatto politico”. Anche se “impatto politico” può sempre avere un duplice significato:
1. È successo qualcosa che spinge la gente sulle barricate e il sindaco decide di riunire subito tutti i suoi più fidati collaboratori.
2. Non sappiamo se dietro questa storia ci sia qualcosa di strano, perciò preferiamo per il momento che resti nell’ombra, anche se pubblicamente fingiamo il massimo della chiarezza e della determinazione, in una situazione di totale follia.
Per la prima ipotesi non posso essere presa in considerazione, in quanto non rientro nella cerchia dei più fidati collaboratori del sindaco, casomai faccio parte dei collaboratori più invisibili del sindaco. Perciò bisognerà puntare sull’opzione due. E quindi a Riley, esperta di zone oscure, viene chiesto di uscire dalla sua zona oscura.
Trovo interessante il fatto che un collega del 44 si stia recando sul posto. Non ho mai capito di cosa si occupino in realtà. So solo che sono tipi a cui piace mostrare i muscoli. Della serie: i veri duri siamo noi e siamo una squadra con le palle.
Ma questo si vedrà.
Allungo il passo camminando in direzione del monumento a Bismarck.
La gabbia è di metallo nero. Ha sbarre di un certo spessore, molto solide all’apparenza, e non è particolarmente grande. Ma abbastanza da farci entrare un uomo adulto dopo averlo piegato in due. Ha una quarantina d’anni, forse quarantacinque, difficile a dirsi, è molto snello e dà l’impressione di essere fisicamente piuttosto in forma. Ha tratti delicati. I capelli scuri sono corti ai lati e sulla nuca, in compenso sono un po’ troppo lunghi sulla fronte e le ciocche gli coprono gli occhi. Un taglio che meriterebbe un bell’abito. Ma in quel momento è nudo e ferito e privo di sensi, al punto che l’immagine dell’uomo d’affari, che nel frattempo si è delineata nella mia mente, regge solo a fatica. Ha lividi ai polsi e ai malleoli come se fosse stato legato a lungo. L’intero corpo è cosparso di ematomi e graffi. Tutto trasmette disperazione, come un dipinto fatto di lacrime e sangue, ma non saprei dire da cosa scaturisca quel senso di disperazione, dall’uomo che è stato ficcato nella gabbia come una bestia rabbiosa o da chi ha compiuto quell’atto. Certo è che in quell’immagine la libera volontà è del tutto assente.
Ho bisogno di respirare a fondo, più volte, solo dopo mi avvicino di qualche passo.
Si direbbe che in questi ultimi minuti i sensi dell’uomo nudo, a poco a poco, stiano riaffiorando in superficie. Ha gli occhi chiusi ma muove piano la testa, mentre uno dei due poliziotti brandisce delle cesoie per metalli con le quali cerca di forzare il lucchetto che evidentemente oppone una strenua resistenza. È un lucchetto notevole, grande quasi quanto una pagnotta, e dall’aspetto sembrerebbe vecchio di un paio di secoli. La gabbia è posizionata proprio davanti all’ingresso principale dell’edificio del gruppo editoriale. Se uno vuole entrare nel palazzo dalla porta di vetro girevole, deve per forza passare davanti alla gabbia. I raggi del sole illuminano l’imponente facciata di vetro che, vista dal porto, sembra una gigantesca nave da crociera. Il sole penetra le nubi alla stessa velocità con cui l’uomo nella gabbia sta riprendendo conoscenza.
Intorno alla gabbia si sono radunati in ordine sparso dei curiosi. Alcuni fumano. Altri, per l’ostentata disinvoltura e i vestiti elegantemente sobri, sembrano dei giornalisti un po’ in ritardo, ma che prima di correre in ufficio non possono evitare di fermarsi davanti a quello sconcertante spettacolo. Tuttavia gran parte dei presenti è costituita da schiere di turisti che ogni mattina si riversano nel porto. Hanno degli zainetti in spalla, indossano pantaloni a pinocchietto e giacche tecniche. Ho sempre notato che i turisti ad Amburgo hanno un aspetto completamente diverso da quelli che visitano Monaco o Berlino, dove a nessuno salterebbe in mente di andare in giro con un cappello impermeabile in testa. Alcuni si portano dietro addirittura quegli assurdi bastoncini da trekking che vanno tanto di moda. Forse sono convinti che già ora Amburgo si affacci sul Mare del Nord, mentre invece ci vorranno ancora fra i trenta e i cinquant’anni prima che questo accada. Il fatto che ci siano persone che pianificano con tanto anticipo persino una semplice vacanza mi fa impazzire. Io preferisco navigare a vista.
“’Giorno,” dico avvicinandomi ai due poliziotti.
“’Giorno, signora Riley,” risponde quello che sta in piedi per non intralciare gli altri, o forse perché si ritiene troppo raffinato per simili compiti. Probabilmente ci conosciamo, visto che anche così presto di mattina si ricorda come mi chiamo. Di sicuro è di poco sotto i sessanta, ha una pancia imponente e sulla nuca, da sotto il berretto d’ordinanza, spuntano riccioli grigi. Sulla giacca della divisa è scritto “Flotow”. Ah, adesso ricordo, commissariato di polizia 16 in Lerchenstraße.
“Ci siamo conosciuti al commissariato di Lerchenstraße,” dico.
“Sì,” risponde. “Ma sei mesi fa ho cambiato. Commissariato 14, Caffamacherreihe.” Infila le mani nelle tasche dei pantaloni della divisa, in un modo che è un mix di passività e aggressività, tipico degli uomini anzianotti, cicciottelli, non particolarmente alti, e mi guarda con aria di rimprovero. “Ne avevo le scatole piene del quartiere a luci rosse.”
Come se la colpa delle rogne di quel quartiere fosse mia. Mentre me le devo sorbire anche io.
L’ispettore capo di polizia Flotow si gira verso il collega che, bestemmiando come un turco, è sempre alle prese con il lucchetto. “Dai, sbrigati, Hoschi. Fra poco questo povero cristo si sveglia e comincia a piagnucolare.”
Hoschi risponde con un grugnito che, immagino, significhi qualcosa tipo: perché non lo fai tu, testa di cazzo?, ma per sua sfortuna le quattro stelle azzurre sulle spalline dell’ispettore capo Flotow chiariscono in modo inequivocabile chi comanda – e chi deve dannarsi l’anima con quel cazzo di lucchetto.
“Funzionario di polizia Lienen,” dice Flotow indicando il collega indaffarato a terra.
“’Giorno, signor Lienen,” dico mentre mi accovaccio vicino a lui.
Non gli manca molto per far saltare il lucchetto.
“Non le manca molto per far saltare il lucchetto,” dico provando a fare un’espressione incoraggiante. Ma purtroppo gli sguardi incoraggianti non sono proprio il mio forte e ne viene fuori solo una specie di tic che non capisce nessuno.
Lienen si gira verso di me. I suoi occhi sono diventati delle fessurine. Dal suo sguardo traspare un tale disprezzo per il suo capo che mi viene da pensare: Hoschi, noi due dovremmo andare a bere una birra, subito.
“Ficcare un uomo in una gabbia ed esporlo al pubblico ludibrio è da malati,” dico.
“Avrebbe dovuto vedere la scena quando siamo arrivati,” dice Lienen tra l’irritato e il perplesso.
“Che è successo?”
Il lucchetto cede con un crac e si rompe. Lienen si alza. Tiene in mano le cesoie come fossero una mazza da baseball.
“Be’,” dice Flotow, “la gente che era qui non si è comportata in modo proprio civile.”
Lienen tira su il berretto e si asciuga il sudore dalla fronte.
“In che senso?”
“È stata una cosa molto sgradevole,” dice Flotow.
Ah. Molto sgradevole. Ma devo proprio tirargli fuori le parole di bocca? Mi piazzo più o meno direttamente davanti a Flotow.
“Non si faccia tirare fuori le parole di bocca,” dico. “Che situazione avete trovato quando siete arrivati qui? E adesso com’è?”
Mi guarda con gli angoli della bocca all’ingiù, fa un cenno come a voler dire: ah, così stanno le cose…, con le mani in tasca si sistema i pantaloni, ma finisce per tirarli fin troppo su, poi si dondola avanti e indietro sulla punta dei piedi redarguendomi con lo sguardo come si fa con un bambino discolo. Io rispondo con aria di sfida, e visto che lui non è in grado di stabilire, su due piedi, chi di noi due alla lunga la spunterebbe, decide di non rischiare.
“Quando la signorina della reception ci ha telefonato,” dice, “erano all’incirca le otto e mezza. Ha detto che c’era un preoccupante assembramento di persone davanti all’edificio. Ha aggiunto che secondo lei c’era qualcuno in pericolo. Non ha fornito altri dettagli, neanche dietro richiesta.”
Lienen è di nuovo inginocchiato davanti alla gabbia e cerca di coprire quell’uomo nudo con un telo termico dorato.
“E poi?” domando.
“Ci siamo recati sul posto,” risponde Flotow.
Non si è ancora tolto le mani dalle tasche e riprova a svicolare.
Ma poi ci ripensa.
“Abbiamo trovato una cinquantina di persone,” dice. “Se ne stavano lì, senza far niente. Ma alcuni, e mi sono dovuto stropicciare gli occhi perché non ci potevo credere, sputavano sulla gabbia. Quando siamo arrivati noi con la volante sono entrati nel palazzo.”
Sei stato fortunato, vecchio.
“Erano silenziosissimi mentre sputavano,” dice Lienen. “Una scena raccapricciante.” Non si gira verso di me, continua a guardare l’uomo avvolto nel telo dorato. “Non ho mai visto una roba del genere. Una situazione che poteva degenerare da un momento all’altro. Sembravano animali rapaci poco prima di avventarsi sulle prede. Non facevano neanche foto, e dire che ormai la gente fa foto in qualsiasi momento e occasione. Se ne stavano lì, sputavano su quel povero cristo e lo trafiggevano con gli sguardi.”
“Siete riusciti a identificarne qualcuno?” domando.
“Alcuni sì,” risponde Lienen. “Ma erano in tanti e poi sono spariti in fretta inghiottiti dall’edificio.” Indica con un cenno della testa la facciata di vetro. “La struttura è enorme. E noi eravamo solo in due. Nel frattempo sono arrivati anche i colleghi della Kripo e ora sono alla reception dove stanno cercando di incastrare qualcuno.”
Tira il telo termico per sistemarlo meglio. Quei cosi sono sempre così dannatamente scivolosi, c’è sempre qualche lembo che lascia la persona scoperta, mentre in realtà dovrebbe fare il contrario.
“E poi uno di noi si è comunque dovuto attivare per chiamare un’ambulanza.”
“Certo,” osservo, “a proposito, che fine ha fatto l’ambulanza?”
L’uomo nella gabbia comincia a muoversi. Si porta la mano sinistra al viso, mentre con la destra prova a tirarsi su. Il telo dorato scivola. Lienen gli parla piano.
“La prego di richiamare,” dico rivolta a Flotow, poi mi inginocchio accanto a Lienen davanti alla gabbia.
L’uomo apre gli occhi e ci lancia uno sguardo interrogativo: sono morto?
Giù a sinistra, alla base della scalinata, una Mercedes marrone attraversa sfrecciando il mio campo visivo. L’autista sgomma, poi si ferma, scende, si stiracchia un po’ goffamente e alla stessa velocità sale i gradini.
“Ivo Stepanovic,” dice il collega porgendomi la mano. “Ufficio regionale di polizia 44.”
“Chastity Riley,” rispondo alzando lo sguardo verso di lui. “Della procura.” Caspita quant’è alto.
“Come? Cassidy?”
“Non importa.”
“Mi dica come si chiama, non ho capito bene.”
Il suo sguardo è in bilico tra lo snervato e l’interessato. Bella, non cominciamo a fare tante storie.
“Mi chiami semplicemente Riley.”
“Okay, Riley, allora lei mi deve chiamare Stepi.”
“Stepi?”
“Scherzo.”
Allunga le labbra, corruga la fronte, si infila le mani nelle tasche dei pantaloni e si guarda intorno.
Lui sarebbe dunque il tipo del 44. La nostra squadra di specialisti funky. Le signore e i signori investigatori del commissariato, anche se non ho mai sentito parlare della presenza di donne. Quelli del 44 si occupano di furti di gioielli e rapine in banca, di ostaggi e ricatti in grande stile, ma sempre solo quando accade qualcosa di difficile da inquadrare a prima vista. Qualcosa di inedito o di particolarmente enigmatico. Qualcosa come un uomo nudo in una gabbia. Forse anch’io rientro in una categoria del genere.
Stepanovic indossa una camicia nera un po’ sgualcita che non stringe ancora sull’addome, ma fra non molto potrebbe succedere. Jeans e stivaletti. I folti capelli brizzolati sono corti, del naso si direbbe che se lo sia rotto come minimo due volte, più probabilmente tre, ha una barba di tre giorni, scura, spuntata ma forte, le sopracciglia sono marcate, gli occhi luccicano di un colore indefinibile, direi quello del fango. La pelle è solcata da rughe, ma comunque nei punti giusti: agli angoli degli occhi e sulla fronte, qualcuna anche a destra e a sinistra della bocca. La sua stretta di mano è quasi paragonabile a una morsa. Un tipo più o meno di bell’aspetto, ma estremamente imperscrutabile.
Non so bene cosa pensarne.
Ma a dirla tutta non lo so mai nei primi due, tre anni, quando conosco qualcuno.
Strizza gli occhi sotto il sole pallido, fa un respiro profondo, gira la testa prima a sinistra, poi a destra, sento un crac e lui geme un poco. Mi sa che ha fatto le ore piccole.
“Bene,” dice, “vediamo di combinare qualcosa.”
Se non erro, mi sembra di sentire un lieve accento di Francoforte, ma cerco di non darci troppo peso.
Stepanovic si volta verso i colleghi della centrale, nel frattempo il funzionario Lienen è riuscito a tirar fuori dalla gabbia l’uomo nudo avvolto nel telo. Mezzo seduto, mezzo sdraiato, l’uomo è appoggiato a un muro e cerca di aprire gli occhi, e ogni volta che ci riesce si sforza di tenerli aperti. Ma non ce la fa. Lienen si è accovacciato vicino a lui e continua a parlargli a bassa voce. Stepanovic stringe la mano a Flotow e fa un lieve cenno con la testa indicando Lienen: non vorrei disturbare, ci salutiamo più tardi.
Poi indietreggia di due, tre ampi passi e fa qualcosa che ho già visto fare spesso a Haller e Calabretta, ma non con la stessa intensità: osserva la scena del crimine come se guardasse attraverso una macchina da presa.
Prima un’inquadratura totale. Il suo sguardo si sofferma di sicuro non meno di due minuti sullo scenario. Poi gira lentamente su se stesso ipotizzando probabilmente i possibili percorsi per l’arrivo, la fuga e il trasporto. Infine si occupa dei dettagli.
La gabbia.
Il lucchetto.
La vittima.
Fa una lunga zoomata e stringe.
“Mi servono delle foto,” dice a Flotow.
Quello annuisce con solerzia.
“Provvediamo subito, capo.”
Sembra colpito dal modo di fare di Stepanovic e desideroso di arruffianarselo.
Stepanovic alza le mani come a volerlo invitare a rilassarsi. E a fare le cose con calma.
Mi raggiunge.
“Questa storia della gabbia è proprio assurda. Ha mai visto qualcosa del genere?”
Scuoto la testa.
La scuote anche lui.
“Dove l’avranno presa?” domanda. “Al circo?”
“Si direbbe un oggetto che ha a che fare con gli animali,” dico.
“Pazzesco. Mi può dire al volo cosa è successo finora?”
“Certo che posso, ma i due colleghi sono arrivati prima di me.”
“Lasciamo perdere,” replica facendo un cenno con la mano. “Sono indaffarati e di sicuro si scocciano di rispondere alle mie domande. Dopo mi siederò comunque con tutti intorno a un tavolo per fare il punto della situazione. Per ora basta che lei mi aggiorni, poi entriamo. Voglio sapere cosa succede all’interno.”
Intanto dà un’occhiata all’esterno dell’edificio del gruppo editoriale, mentre gli riferisco i fatti di cui sono a conoscenza.
Anch’io, a mia volta, lo osservo dall’esterno.
Sarebbe dunque lui il mio nuovo partner investigativo.
Ricevuto.
Due colleghe e due colleghi della Kripo sono nella reception, uno spazio che ha qualcosa di opprimente. Dall’esterno l’edificio sembra una nave, mentre all’interno fa pensare a una sala macchine. Corridoi e scale si diramano dappertutto, la facciata di vetro è rinforzata con sbarre d’acciaio, il soffitto è basso e scuro sopra le teste.
Sulle poltrone di pelle nere, disposte a casaccio a sinistra dell’ingresso, sono sedute una ventina di persone, e dai loro sguardi si intuisce che le hanno pregate di non muoversi da quella posizione. Nessuno è rilassato, sono tutti rigidi come pali della luce. Gli agenti della Kripo prendono appunti sui taccuini. Di tanto in tanto fanno qualche domanda, cioè gli agenti fanno domande ai giornalisti, i quali pensano così di trovarsi in una conferenza stampa alla rovescia. O almeno è questo che sembrano esprimere loro facce: che cazzo c’è adesso?
È incredibile quanto si somiglino i reporter e gli investigatori, almeno nel modo di vestire e nell’atteggiamento. In fondo l’unica cosa che distingue le due categorie sono le giacche: quelli della Kripo abbinano a jeans e t-shirt giubbotti di pelle sagomati, gli scribacchini, invece, una giacca sportiva o di velluto a coste di buona fattura. Guardo verso il basso e vedo che stringo tra le mani una giacca di pelle marrone leggera che mi porto dietro da una ventina d’anni, almeno quelli percepiti, e mi viene da pensare che tutto sommato sarei potuta diventare una discreta poliziotta.
Stepanovic si allontana per un attimo e si presenta ai colleghi, con un gesto indica me, annuisce e si porta una mano all’orecchio come a dir loro: ci sentiamo per telefono. I colleghi rispondono con un cenno della testa, ma lui si è già girato. Con tre ampi passi raggiunge me e con altri due la signorina alla reception.
“Stepanovic, Ufficio regionale di polizia di Amburgo,” dice mostrandole il tesserino. “Lei è la signora Riley della procura.”
La micetta della reception è bionda, graziosa, esile, e ancora ampiamente sotto i trent’anni. Un piccolo chignon le raccoglie i capelli sulla nuca, un cardigan di cotone verde chiaro le cinge le spalle, insomma non è il tipo di donna che scalpita dalla voglia di affermarsi. Fra tre, quattro anni farà l’assistente al caporedattore di una rivista di second’ordine e il caporedattore, va da sé, sarà un uomo. Poco tempo dopo sposerà il vice di quell’uomo e andrà ad abitare in periferia, avrà due bambini che saranno ancora più carini di lei. Nel frattempo suo marito sarà diventato caporedattore di non importa quale testata, l’importante è l’apparenza.
Mi domando in continuazione come facciano alcune persone a sopportare una vita del genere in cui non si può mai, ma proprio mai, fare uno svolazzo fuori dalla tela. E al tempo stesso mi chiedo perché io invece sia nata con questa matita in mano che per me lascia segni visibili solo fuori dalla cornice.
Comunque è stata la micetta della reception a chiamare la polizia. E ha anche delle informazioni per noi.
“L’uomo nella gabbia è Tobias Rösch,” dice indicando con un dito l’ingresso, ma senza guardare.
“L’hanno tirato fuori dalla gabbia,” faccio notare.
“Ah, meno male. Alla fine mi è dispiaciuto per quel pover’uomo.”
“All’inizio non le è dispiaciuto?” domando.
Lei si sporge un po’ verso di me e fa una faccia come se dovessi sapere cosa sta per dirmi. Scandisce piano: “Il signor Rösch è il capo del personale.”
Respiro e soffio l’aria tra i denti, inclino leggermente la testa all’indietro, il che significa sempre: ah, è una testa di cazzo, ecco perché.
Quello del capo del personale non è di certo un ruolo che in tempi di crisi susciti simpatia. Al momento il suo compito principale consisterà nel contenere le spese a discapito di qualcuno. Probabilmente gli è stato chiesto di sbarazzarsi al più presto di un numero quanto più alto possibile di impiegati e di sostituirli con collaboratori esterni che costano molto meno.
“Vorrei parlare con il capo della commissione interna,” dice Stepanovic.
E in quel momento mi viene da chiedermi perché la ragazza abbia chiamato la polizia solo alle otto e mezza, quando le scene più disgustose intorno alla gabbia erano già avvenute. A che ora arrivano i primi dipendenti? Alle otto? Perché non ci hanno telefonato subito dicendo che qui c’era un uomo in questa situazione?
Avremo modo di chiarirlo. Le mie regole di ingaggio mi dicono che lo chiarirà la Kripo. Devo imparare a starmene fuori in certi momenti.
La signorina della reception fa boccuccia ed è visibilmente piccata, forse si rammarica di essere entrata troppo precipitosamente in confidenza con noi, passa quindi al sorriso d’ordinanza per il quale viene pagata, afferra il telefono e fa un numero. Squilla a lungo. Riattacca.
“Il signor Grabowski non risponde. Probabilmente è in giro, fuori dal suo ufficio.”
Il sorriso regge.
“Possiamo anche aspettarlo nel suo ufficio,” dico.
“Purtroppo non posso allontanarmi per accompagnarvi,” dice passando di nuovo a un’espressione decisamente delusa. Non vorrei essere nei panni dell’uomo costretto a sopportare questa centrifuga emotiva.
“Ci andiamo lo stesso.”
“Okay.”
Ha serrato le labbra. Fine del sorriso.
Strappa un foglietto da un piccolo bloc-notes, ci scrive su qualcosa, lo posa sul banco della reception e le labbra si fanno ancora più sottili. Sul biglietto è scritto: “Robert Grabowski, D107”.
“Riuscirete a trovarlo?”
Sguardo da maestrina.
Lo troveremo?
Non ho idea se lo troveremo, diamo per caso l’impressione di essere degli scout? Cioè: non siamo mai stati qui e il palazzo è labirintico come la sala macchine di una nave da crociera. Come facciamo a sapere se lo troveremo? Una parte di me sarebbe tentata di mollare un ceffone a quella smorfiosetta, l’altra parte vorrebbe immergerle la faccia in una pentola con un liquido appiccicoso. Comincio ad averne abbastanza, stamattina, di questi interlocutori poco collaborativi.
Stepanovic prende il foglietto, se lo infila in una tasca, senza dare nell’occhio mi dà di gomito e dice: “Venga, Riley. Lo troveremo. Sono o non sono uno sbirro?”
Nell’ufficio di Robert Grabowski, Stepanovic è seduto sulla sedia girevole della scrivania, io invece sono accovacciata sul termosifone basso, con gli occhi tra le ginocchia come se stessi pedalando su una bicicletta per bambini. Stepanovic si sposta avanti e indietro con la sedia e mi guarda.
“Lei che impressione ha? Come sono andate le cose? Azione concertata dei dipendenti?”
“No,” rispondo. “Una cosa del genere non si fa in gruppo. Una roba così la fa uno che è incazzato nero. Deve esserci dietro qualcosa di personale. E poi di solito i giornalisti ricorrono ad altre armi, non le pare?”
“Alle parole, dice?”
“Esattamente,” rispondo. “Parole, testi, riunioni, assemblee pubbliche, roba del genere.”
Continuo a scivolare sul termosifone. Ho scelto proprio un bel posto di merda per sedermi.
“E comunque la storia deve avere a che fare con questioni di lavoro, altrimenti non avrebbero riservato quel trattamento al signor capo del personale esponendolo al pubblico ludibrio.”
“Ha sigarette?”
“Certo. Lei no?”
“Le ho dimenticate a casa,” dice. “Sono uscito un po’ di corsa stamattina.”
Ho la sensazione che non sia venuto qui da casa, ma non sono fatti miei. E poi a casa può anche significare: di notte da qualche parte in una casa qualsiasi.
Mi giro. Alle mie spalle c’è la portafinestra di un balcone e, dall’altra parte, il balcone. Traggo le mie conclusioni.
“Se andiamo a fumare una sigaretta arriva l’autobus,” dice Stepanovic.
“Voleva dire Robert Grabowski?”
Sogghigna, e mi sembra avere lo stesso sguardo dei ragazzini della mia infanzia quando ci guardavano, a noi dell’ultima fila di banchi, prima che ne combinassimo una delle nostre.
Si alza e mi porge la mano, la prendo, mi tira su come fossi una piuma.
“Forza, Riley, facciamo arrivare l’autobus.”