Umschlag

Questo romanzo è un’opera di fantasia. I personaggi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone realmente esistenti o esistite è puramente casuale.

Titolo originale: So dunkel der Wald
© 2018 Emons Verlag GmbH
Tutti i diritti riservati

Prima edizione italiana: ottobre 2019

Impaginazione: Rossella Di Palma
Elaborazione ebook: CPI Books GmbH, Leck

ISBN 978-3-96041-577-0

Distribuito da Emons Italia S.r.l.
Viale della Piramide Cestia 1c
00153 Roma
www.emonsedizioni.it

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MICHAELA KASTEL

NELLA TANA

Il bosco non è mai stato così oscuro

Traduzione di Monica Pesetti

 

Per la casa al civico 50

1

Lo chiamiamo Varco del sole, il buco nero tra le rupi nel quale ci getta papà quando non facciamo i bravi.

La fossa scende per circa cinque metri nel ventre della montagna. La cavità in cui sfocia è stretta, ma per un bambino rannicchiato lo spazio basta senz’altro. In fondo al crepaccio ristagnano acqua e gelo, ma anche movimenti quasi impercettibili, che si colgono solo con gli occhi sbarrati per il terrore: le pietre che luccicano, le gocce che stillano, gli insetti che vivono a centinaia nelle fenditure e agitano piano le ali. Esseri disgustosi, chiazze d’ombra nel buio. Quando eravamo piccoli, Jannik mi ha raccontato che una volta ha visto anche un pipistrello vampiro, con gli occhi rossi e il sangue che colava dai lunghi denti aguzzi. Non gli ho creduto nemmeno allora, eppure ancora oggi continua a sostenere che è vero. Gli piace farmi arrabbiare.

Le notti di pioggia sono le peggiori. Non finiscono mai. Non esiste sonno, laggiù, solo il buio e il silenzio morto delle rocce. Le pareti frastagliate tagliano come lame di rasoio, lacerano la stoffa e la pelle, frantumano i pensieri insieme alle ossa troppo fragili. Superata la notte, inizia il vero incubo. Non vedi la luce del giorno, anche se sai che è da qualche parte su in alto, i tuoi vestiti sono fradici, hai freddo, e lo stormire monotono degli alberi rischia di farti impazzire. Sei consapevole che ci vorranno ore prima che papà venga a riprenderti, quindi chiudi gli occhi e sogni. Sogni una mattina in cui è tutto diverso, perché ogni tanto il tepore di un raggio di sole ti sveglia con un bacio delicato, e in quei momenti sembra quasi che una pioggia d’oro cada leggera su di te nell’oscurità, un riverbero intenso e sfavillante, come quando si apre un forziere.

Jannik accende i fari della Lada. Il chiarore penetra nell’umidità del bosco, si frantuma sulle pietre coperte di muschio e gli alti abeti scuri, più radi man mano che saliamo. Una pioggerella sottile appanna i vetri e avvolge la montagna in una trama di nebbia. Jannik adora lanciare il 4 x 4 sul terreno reso impervio dal pantano. Non si preoccupa dei canali di scolo che due anni fa in autunno lui e papà hanno scavato lungo il sentiero sterrato perché non si allagasse, usando solo dei picconi. Ci passa sopra spingendo al massimo, e un violento scossone mi costringe a cercare un appiglio.

“Si arrabbierà se sporchiamo di nuovo la macchina,” gli rammento. L’ultima volta Jannik l’ha ridotta così male che papà gli ha proibito di guidare per tre settimane. Non ho dimenticato il suo umore in quei giorni. “Rallenta,” gli chiedo, dato che non reagisce.

“Lasciami divertire.”

“Andremo a sbattere.”

“Sciocchezze.”

Superiamo il vecchio mulino. Somiglia a un rudere stregato sul ciglio della strada, le porte e le finestre sprangate con assi di legno fanno pensare che un tempo al suo interno sia accaduto qualcosa di orribile. Sulla facciata muffe e funghi proliferano come pustole. La ruota marcia non si muove più da decenni.

“Guarda!” Jannik indica il corvo che si è posato davanti a noi. “Ora lo schiaccio,” dice, e preme sull’acceleratore.

“Ma cosa ti salta in testa? Smettila!”

“È soltanto un uccello.”

“No!”

Afferro il volante e sterzo nella mia direzione. Il piede di Jannik finisce sul freno, la Lada si ferma con un sobbalzo. A mezzo metro di distanza da un grosso masso. Ho un tuffo al cuore, sarebbe potuta finire male.

“Sei impazzita, Ronja? Per poco non ci schiantiamo! Non azzardarti mai più!”

Il corvo è ancora lì. Agita forsennatamente le ali, che però a quanto pare non hanno abbastanza forza per sollevarlo in aria.

“Non mi piace quando ti comporti in questo modo,” rispondo. “Quell’uccello non ti ha fatto nulla.”

Lui spegne il motore e mi osserva. Lo avrebbe investito con la ruota anteriore sinistra, senza esitare, perché non gli importa niente di un corvo, e forse perché qui la sofferenza altrui è l’unica gioia che ti rimane. Ma sa anche che è folle, e nei suoi occhi vedo la gratitudine per il fatto che continuo a ricordarglielo, proprio come a volte ci vedo il bosco, un luogo freddo e fuorviante, che troppo spesso lo ha tratto in inganno. Occhi che desiderano la luce. Io sono la sua luce.

“Proseguiamo a piedi,” propone.

Scendiamo e lasciamo la macchina sulla strada. Nessuno si avventura da queste parti, nel fitto della vegetazione. Il terreno è fangoso, ma abbiamo scarponi robusti. Mentre Jannik prende dal bagagliaio lo zaino con l’attrezzatura da arrampicata, esco dal sentiero e mi avvio sull’ultimo tratto in salita fino alla sommità dell’altura.

Stamani la quiete mi colpisce in maniera particolare. Ci sono soltanto i nostri passi e il lieve ticchettio della pioggia tra gli alberi, nient’altro che sagome indistinte nella foschia, immagini riflesse su un lago torbido. La luce filtra a malapena attraverso le chiome vicinissime tra loro. Non ci vuole molto prima che Jannik mi superi. Risale in fretta il pendio, senza voltarsi verso di me. Non parliamo. Qui ci si conforma in fretta al silenzio degli spiriti, che di notte imperversano e di giorno non vogliono essere disturbati. Lo stretto corso d’acqua che stiamo seguendo è uno scintillio di bagliori argentati, sembra quasi magico, invece è la nebbia a dargli quell’aspetto, la nebbia che vela ogni cosa.

Presto raggiungiamo la vetta. Da qui si ha una buona visuale sulla valle e le creste delle montagne tutto intorno. È un posto tranquillo, così deserto. Guardare in lontananza sull’orlo del dirupo pieno di sassi è come affacciarsi da una scogliera che emerge da un calmo oceano verde, estrema propaggine della terraferma. Invece delle onde, è la nebbia a infrangersi sulle rupi, e le barche che beccheggiano all’orizzonte sono le cime degli alberi mosse dal vento. Per un attimo spunta il sole, e con pennellate precise si delinea un paesaggio sconfinato, solitario fin nel profondo. I miei occhi cercano invano una strada o una casa. Potrei urlare a squarciagola e nessuno mi sentirebbe. Una libertà infinita dentro una gigantesca gabbia vuota.

Jannik ha liberato l’entrata del crepaccio dalle assi di legno con cui l’abbiamo chiusa l’ultima volta. Un misero riparo dalle intemperie, ma è meglio di niente. Si piega sulle gambe e tira fuori l’attrezzatura dallo zaino. Indosso l’imbracatura, lui si infila i guanti e assicura la corda all’anello sul mio fianco. Anni di esercizio hanno perfezionato i singoli gesti, solo l’espressione tradisce il suo nervosismo. Si mordicchia le labbra, il respiro è teso e concentrato. Non si accorge che lo osservo. I suoi pensieri vanno al buio e al tempo che si perde là sotto, mentre noi ci ostiniamo a seguire la prassi consolidata. I capelli umidi di pioggia gli ricadono sul viso. Scuro come tutto qui, come i suoi occhi che non mi vedono.

“Pronti.” Fa un passo indietro e si arrotola la corda intorno al braccio.

Mi accovaccio sul bordo dell’entrata, aggancio le dita alla roccia e comincio a scendere. All’inizio con prudenza e poi, appena avverto il risucchio gelido, più spedita. Da quanto è in fondo al crepaccio? Tre giorni? La pietra è bagnata e spigolosa, scivolo e sono costretta a fare una pausa. In alto Jannik tiene tesa la corda, perché devo procedere senza assicuratori e non potrei frenare in alcun modo una caduta. Mi porto dietro dei chiodi da roccia per un ancoraggio di emergenza, ma una volta incastrati sono difficili da estrarre, perciò cerco di evitarli. Per fortuna conosco a memoria gli appoggi dove posizionare i piedi. Quando la parete si inclina verso il basso, puntello le gambe per darmi lo slancio e supero con un salto gli ultimi metri.

Da ogni fessura esala una zaffata di muffa e urina. Affondo fino al malleolo nell’acqua fredda e sporca. Prendo la torcia dalla tasca del giaccone e mi affretto a illuminare il buio, prima che gli occhi mi giochino brutti scherzi.

“Lola?”

Tasto con cautela la roccia, sfiorando i graffi che c’erano già la prima volta che sono finita qua dentro. Devono averli lasciati delle unghie. Qualcuno ha tentato con tutte le sue forze di arrampicarsi, ancora e ancora, ma non ci è riuscito. Un crudele memoriale dell’inespugnabilità di questo luogo, scalfito in eterno nella pietra. Forse sono state le unghie di Jannik. Non gliel’ho mai chiesto.

L’acqua forma un mulinello che defluisce nelle viscere della montagna. Da qui in poi non si può più proseguire. Dovevo averla già trovata. Il cono di luce vacilla, è la mia mano che trema?

“Lola!” chiamo.

Qualcosa mi afferra il piede. Tengo la torcia premuta contro il petto, non ho il coraggio di guardare nel buio. Jannik grida il mio nome, probabilmente mi è sfuggito un urlo. Sento un sussurro. Una specie di gorgoglio, simile a sangue che ribolle, proprio davanti a me.

“Non… lasciarmi sola…”

Gocce gelide mi scivolano sulla nuca. Punto la torcia nell’oscurità. Il fascio giallo rivela una figura grigia e bagnata come le pietre, senza quasi più niente di vivo. Come se la montagna l’avesse già fagocitata. Le ciocche castane sul viso ossuto, gli occhi vitrei spaventati dal bagliore improvviso. Dalla massa ricurva che un tempo era un naso esce un rivolo rosso. Continua a stringermi il piede. Poi dal suo corpo fugge anche l’ultima scintilla di vita, scacciata dalla luce, e all’improvviso la presa si allenta. La testa piomba di lato, con la pesantezza di un macigno. La mia mano non smette di tremare.

“Ronja?” Uno strattone deciso alla corda. “Cosa succede? L’hai trovata?”

“Sì… è con me.”

“Sta bene?”

Mi siedo accanto alla piccola immobile e fisso le ali degli insetti sulle rocce. Milioni di ali. Alla luce del giorno dovrebbero avere una sfumatura azzurrognola, qui invece sono nere. Tutto ciò che nasce nel buio entra a far parte del buio per sempre.

Sollevo Lola, è emaciata e fredda, e la porto in corrispondenza dell’imbocco. Jannik aspetta impaziente all’altra estremità.

“Attento!” grido mentre la tira su con la corda. Dopo tocca a me.

Restiamo a lungo chini su di lei, a guardarla. Due settimane fa non la conoscevamo neppure. Papà prenderà un’altra bambina.

Ma quel giorno io non ci sarò più.

2

Al ritorno Jannik guida con estrema lentezza. Mi accorgo che ha la testa altrove. Papà sarà infuriato. Lo era già tre giorni fa, quando Lola è scappata e ha dovuto inseguirla con il fucile carico. Non era previsto che morisse così presto. Si aspettava molto da lei, e scavare una fossa in questa stagione è un lavoro faticoso. Il gelo autunnale è ormai penetrato a fondo nella terra e, se ci dice male, la pioggia provocherà smottamenti, con il rischio che i resti vengano riportati in superficie. Di solito la montagna inghiotte tutto, avida, ma quanto le diamo è troppo anche per lei. Chissà se Lola era il suo vero nome.

Il sentiero si addentra sempre di più nel bosco, tra cataste di legna marcia, giganteschi massi erratici e sorgenti che zampillano piano. Il terreno è coperto da uno spesso strato di vegetazione in cui scorrazzano animali di vario genere. Roditori guizzano veloci in cerca di cibo, colonie di formiche si muovono in ogni direzione, salamandre, rospi e altri anfibi si nascondono negli interstizi umidi o nei rigagnoli sotto le rocce. I richiami degli uccelli precedono il suono del motore e si perdono in alto tra le fronde.

Dietro una curva sbuchiamo in una radura che si sviluppa lungo un pendio erboso. Si vede il fumo che esce dal camino, poi nel verde spunta anche la casa. Costruita in pietra, legno e argilla, se ne sta accucciata in mezzo agli alberi come un animale ferito: il freddo, l’umidità e lo scorrere del tempo la dissanguano a poco a poco, ma al suo interno c’è ancora vita.

Mentre Jannik parcheggia la Lada al riparo di un gruppetto di abeti, Henna ci corre incontro. I corti capelli mori dritti sulla testa, gli occhi scuri che brillano. I grossi stivali di gomma le intralciano i movimenti, inciampa su un sasso e finisce in una pozzanghera con il suo vestitino celeste. Però si rialza subito e sorride a denti stretti per mostrarci la finestrella nuova di zecca.

“Ahia! Quando ti è caduto?” domando prendendola in braccio.

“Stamattina,” risponde orgogliosa. “Theo ha detto che devo metterlo sotto il cuscino, così durante la notte si trasforma in cioccolato.”

“Be’, non so se il cioccolato è la cosa migliore per i denti.”

La metto giù prima che mi impiastricci il viso con le mani imbrattate di fango e la ripulisco da aghi di pino, foglie e terra. Jannik chiude a chiave la macchina e quando le passa accanto le accarezza i capelli scompigliati.

“Dov’è la bambina nuova?” Henna si guarda intorno con aria interrogativa.

Nel bagagliaio. E presto scomparirà per sempre.

“Entriamo. Fa freddo.”

Prima della casa c’è un tratto in discesa. Superiamo la rimessa degli attrezzi, la sbarra e il gabinetto, che somiglia alla buffa guardiola di un portiere. Su un lato c’è un profondo pozzo dal quale attingiamo l’acqua quando le tubature sono intasate o ghiacciate, e dietro c’è il prato con i tre maestosi sorbi selvatici. Nascosta nella loro ombra, la vecchia legnaia è di vedetta al limitare del bosco. La casa invece è nella radura, esposta e senza protezione. Le incrinature sul tetto testimoniano le numerose grandinate e i colpi di tutti i sassi caduti nel corso degli anni. La metà superiore è rivestita di legno verniciato di marrone scuro, mentre la parte sottostante in pietra ormai ha assunto la stessa tonalità di grigio della nebbia. Le finestre sono ricoperte da un intrico di rose rampicanti secche di cui nessuno si prende cura. Sotto la tettoia che ripara la porta d’ingresso sono allineate sedie da giardino sporche.

Dall’interno arriva un gradevole tepore accompagnato dalla musica del giradischi. Mi fermo sulla soglia e sento il profumo della zuppa di pollo preparata per pranzo. Jannik è già entrato. Da una finestra lo vedo attraversare la Stube, posare le chiavi della macchina sul tavolo e fare rapporto alla figura seduta sulla sedia con i braccioli. La figura ascolta e continua a mangiare rumorosamente.

Due manine sporche mi tirano per la manica. “Dov’è la bambina nuova?” torna alla carica Henna.

Mi sforzo di sorriderle. Lo verrà a sapere comunque. Jannik non ha un briciolo di delicatezza quando si tratta della verità, e Theo le racconterebbe una delle sue storie dell’orrore che la terrebbe sveglia per nottate intere.

“Ha attraversato il Varco del sole, piccola.”

Henna aggrotta le sopracciglia e arriccia le labbra, pensierosa. “Come Mona e Lisa?”

“Esatto. Come Mona e Lisa.” E Laura. E Annika. E Gerlinde. E tutte le altre. Henna non può ricordarsi di loro. È qui da troppo poco.

Rumore di passi. La musica si interrompe. Papà si è alzato ed è sparito nel retro, posa la scodella nel lavello e aggiunge legna nella stufa. Gli scricchiolii del pavimento mi rimbombano nel cervello. Poi viene fuori. In un primo momento è solo un’ombra che si allunga nel vano della porta, e Henna sguscia in casa come un topolino a rintanarsi nell’oscurità sicura della Stube, anche se lui non la guarda nemmeno.

Papà incassa la testa per non sbattere contro lo stipite basso.

“Un’altra,” mormora con la sua voce profonda e gutturale, che non fa trasparire né rimorso né stupore. Solo frustrazione e un leggero biasimo. Quasi fosse colpa mia. Neanche fossi stata io a lasciarla crepare laggiù per insegnarle l’educazione.

Prende dal gancio la giacca di camoscio marrone, si infila guanti e berretto, infine afferra la pala, appoggiata al muro accanto all’ingresso. È lì da che ho memoria. Costantemente sporca di terra fresca. Quando ha indossato la giacca il suo odore mi ha avvolta, e il miscuglio di pelle scamosciata, bosco e sudore ha fatto riaffiorare dentro di me ricordi, immagini e sensazioni rimosse, alcuni confusi, ma la maggior parte perfettamente a fuoco. Rivedo con chiarezza soprattutto i colori: macchie rosse sul lenzuolo, lividi bluastri sul mio viso. A quel tempo non riuscivo a immaginare di poter raggiungere un’età che mi avrebbe protetta da lui. Credevo sarebbe andata avanti così per sempre. Non sapevo ancora che a papà piacciono morbidi e delicati. Da parecchio io e Jannik non gli interessiamo più.

“Occupati dei bambini,” mi incarica, e con un gesto deciso consegna la pala a Jannik.

“Salite allo Spuntone del diavolo?” domando.

Papà annuisce. I suoi occhi azzurro ghiaccio sono chini sulle mani, scrupolosamente impegnate con i bottoni della giacca. Sono gli occhi di un cacciatore. Freddi e all’erta, colmi di astuzia, ingordi di sangue. Tra non molto si metterà in cerca di un’altra bambina, e anche quella bambina imparerà presto a temere la sua vista, il viso spigoloso con l’accenno di barba grigia sulla pelle chiara, il fisico asciutto. È come un albero morto, secco e abbandonato dalla luce, eppure radicato nel mondo con tanta forza da lasciare la sua impronta nera ovunque vada.

All’improvviso mi chiedo se è sempre stato così vecchio. Se davvero la mia infanzia, la mia innocenza sono state rubate da questo eremita decrepito.

Lui e Jannik si dirigono verso la Lada. Porteranno il cadavere di Lola allo Spuntone del diavolo, un’imponente sporgenza rocciosa sull’altro versante della montagna, dove papà seppellisce i corpi di tutti i bambini. Il terreno è completamente imbevuto di sangue. Affiora a ogni passo, filtra attraverso gli scarponi e la pelle, penetra nelle ossa. Jannik getta la pala sul sedile posteriore e sale davanti. Quando papà avvia il motore, le cornacchie si levano in volo dai rami. Guardo la macchina che si allontana e sparisce tra le ombre del bosco.

“Addio Lola,” sussurro.

La casa è buia e angusta. In passato era una fattoria, ma oggi si riconosce soltanto dalla pianta e dagli spazi piccoli. Papà ha trasformato la stalla in un’officina, il fienile è stato isolato ed è diventato la sua stanza da lavoro. Perché nei mesi più freddi il calore non si disperda, i muri sono molto spessi e le finestre minuscole, quindi in pratica non entra mai il sole.

Dall’ingresso si va nella vecchia cucina con il focolare aperto che usiamo solo come cella frigorifera, poi nel bagno, nell’officina, nella Stube, e da lì di nuovo in cucina. Siamo abituati a questa disposizione labirintica e anche agli opprimenti mobili scuri, che fanno parte della casa al pari di tetto e fondamenta. Credenze, armadi, polverosi trofei di caccia e un orologio a muro ingombrano le pareti e non vengono spostati da anni. Sporche tende a fiori tengono lontana la poca luce che arriva. La Stube è occupata quasi per intero dal tavolo rotondo, dove oltre a mangiare guardiamo la televisione e ogni tanto giochiamo a carte, e davanti c’è l’antidiluviana stufa a legna. Anche la cucina e il bagno sono riscaldati con la legna, solo al piano superiore accendiamo delle stufette portatili, sempre che papà ce lo permetta.

Posso insaponare e strofinare quanto voglio, ma l’odore di muffa non se ne va. Papà dice che è normale nelle case così vecchie. Almeno in cucina cerco di creare un ambiente pulito e confortevole. Profuma di torte, erbe aromatiche e detersivi, e il crepitio delle rustiche piastre in ghisa scaccia il silenzio e il freddo.

Stamani ho parecchio da fare. Per prima cosa devo lavare e cambiare Henna, reduce dal piccolo incidente con la pozzanghera, poi mi aspettano le faccende. Il lavello incastrato nell’angolo dietro i fornelli, che bisogna essere flessuosi come giunchi per raggiungere, trabocca di pentole e stoviglie, e infine serve altra legna per la stufa e il boiler. Incarico Theo. È molto bravo per avere dieci anni, anche se Jannik è più preciso e taglia pezzi di dimensioni più adatte.

Poco dopo Theo ritorna carico fino alla punta del naso e accatasta i ciocchi nella cassapanca davanti allo specchio della Stube. Henna lo aiuta.

“Come sta Nika?” mi informo.

“Al solito,” risponde Theo. “Papà dice che quando tossisce sputa sangue.”

“Non è un buon segno.”

“Perché quando tossisce sputa sangue? Cos’ha?” vuole sapere Henna, che cerca inutilmente di infilare nella cassapanca un ceppo troppo grande.

Theo glielo toglie di mano con una smorfia. “Si sta trasformando in uno zombie. Presto di notte si alzerà per mangiare i bambini piccoli. E inizierà da te!”

“No!” Henna scappa via strillando e mi si aggrappa a una gamba. “È vero, Ronja, è vero?”

“Certo che è vero,” assicura Theo.

“Smettila di spaventarla,” lo rimprovero, e gli do un colpetto sulla testa.

Lui reagisce come se avesse ricevuto chissà quale botta e si strofina piagnucolando i capelli ricci. Sono corvini e lunghi fino al collo come quelli di Jannik, invece io, Henna e Nika dobbiamo portarli corti. Papà vuole così. Quando ero piccola avevo una folta treccia, ricordo che la tenevo sopra la spalla e mordicchiavo la punta finché non si bagnava. Poi è arrivato papà con le forbici, via la treccia, e di punto in bianco è cambiato tutto. Mi ha perfino tinta di biondo per modificare il più possibile il mio aspetto. Adesso sono di nuovo castana, e non lo disturba nemmeno che la frangia mi arrivi quasi al mento. A volte mi sfiora una ciocca, sostenendo che con i capelli scuri risaltano di più gli occhi grigio azzurri. I miei occhi sono sempre stati grigio azzurri? Ho l’impressione che questo colore freddo si sia insinuato dentro di me nel corso degli anni, ogni volta che ho guardato il suo viso cereo e spietato.

Rumore di piatti rotti. Quando mi volto, Theo e Henna sono impietriti davanti al lavello, le braccia alzate. Henna è in piedi su un panchetto.

“È stata lei!” dichiara Theo.

Il labbro inferiore di Henna inizia a tremare, e le vengono le lacrime agli occhi.

Mi mancherete così tanto…

“Forza, ripulite. Io vado da Nika.”

“Quando torna Jannik?” domanda Theo.

“Abbastanza tardi. È andato allo Spuntone del diavolo con papà.”

Theo lascia cadere i cocci appena raccolti. “Lola è morta?”

Non ho il tempo di rispondere, perché due manine sporche mi tirano di nuovo per la manica. “Ma avevi detto che ha attraversato il Varco del sole.”

“Infatti è vero,” spiego.

Theo si inginocchia sul pavimento e ricomincia a raccogliere i cocci senza dire una parola.

Lui è più grande di Henna. Sa che le parafrasi amene non rendono la morte più accettabile.

Li lascio ad asciugare i piatti e salgo di sopra. In cima alle scale mi accoglie il corridoio che puzza di chiuso su cui danno le camere. Una per me e Jannik, una per i bambini, una per Nika e una per papà. La porta cigola e geme quando si apre, e lo stipite è talmente basso che devo chinare la testa perfino io. Come tutto in questa casa, la stanza è stretta e soffocante, gli orribili mobili di legno risucchiano la luce naturale, e negli angoli si nascondono i ragni. Tranne la piccola lampada sul comodino, non c’è nulla che possa disperdere le ombre. Una delle tante regole domestiche: niente sprechi di corrente. Bisogna trattare con riguardo i generatori, e l’antenna deve durare ancora per molti, molti anni.

Nika è seduta sul letto e legge. Un libro così vecchio e malridotto che quasi cade a pezzi. I corti capelli castani sono unti e appiattiti dal cuscino, la bocca incrostata dall’herpes è contratta. La camicia da notte è chiazzata di sudore. Nonostante fuori faccia un gran freddo e la finestra sia spalancata, l’aria nella stanza è viziata. Senza volere, per un attimo trattengo il fiato.

“Come stai?”

Nel silenzio sento il suo respiro pesante e affannoso. Gli occhi cerchiati di nero rendono il viso di Nika ancora più smunto. Ha due anni meno di me, ma l’aspetto di chi ha già una vita intera alle spalle. È troppo orgogliosa per guardarmi. In risposta, si limita ad alzare le spalle.

“Lola è morta,” la informo nel tentativo di suscitare una reazione.

I suoi occhi azzurri scivolano su di me senza mostrare il minimo interesse. “Era chiaro. Non le avrei dato un’altra settimana.”

“Ringrazia di non averla dovuta ripescare dal buco.”

“Ringrazia di non avere i polmoni marci.”

“Vuoi fare a cambio?”

“E tu?”

Osservo i fazzoletti sporchi accanto al letto. All’inizio espettorava solo pus, ora invece sputa anche sangue. Morirà, se non la portiamo in ospedale. Lo sappiamo tutti. No, non voglio fare a cambio.

Nika si concentra di nuovo sul libro.

“Oggi hai mangiato?” domando.

“Non lo so.”

“Posso portarti qualcosa, se vuoi.”

Nessuna risposta. Tutti abbiamo fatto lo sciopero della fame. Non serve a molto, perché alle brutte papà ci costringe a mangiare con la forza. L’inappetenza di Nika dipende dal suo stato, e la situazione peggiora quando lui minaccia di conficcarle la forchetta nel collo se non finisce quello che ha nel piatto. Il più delle volte vomita i pasti. Per sfinimento, ma anche per dispetto: si infila due dita in gola finché non c’è più niente da buttare fuori. Papà non lo tollererà ancora a lungo. E dopo?

“Credi che ne prenderà un’altra?”

Lei si stringe ancora nelle spalle.

“L’inverno è alle porte. Se ne getta nel buco ancora una, presto non avremo più posto per i corpi.”

“Vattene, Ronja. Voglio continuare a leggere.”

Mi chiudo la porta alle spalle il più silenziosamente possibile. Mi stringe il cuore abbandonare anche lei, a un passo dalla fine. Insieme abbiamo superato così tante notti piene di lacrime e vergogna, così tante volte abbiamo avuto paura e ci siamo strette l’una all’altra, che nulla potrà mai spezzare il nostro legame, e forse è proprio questo il motivo per cui ci odiamo tanto. Perché siamo state obbligate a farci tutte quelle cose spaventose. Perché siamo state vicine più di quanto volessimo far avvicinare qualcuno. E questa vicinanza ha sprigionato scintille cattive tra di noi, come fossimo pietre strofinate con furia l’una contro l’altra.

Prima di tornare di sotto, approfitto dell’assenza di papà per terminare i preparativi per domani. Sa che per sbrigare le varie commissioni nei paesi della zona devo restare fuori qualche giorno, perciò non gli sembrerà strano se prendo una borsa con un cambio di vestiti e altri effetti personali. L’ho già preparata, è pronta in camera mia e di Jannik, che ho ispezionato provando una strana tristezza per individuare gli oggetti la cui mancanza sarebbe passata inosservata. I miei disegni, per esempio. Li tengo in una voluminosa cartella sottratta nella stanza da lavoro di papà. Sfogliandoli si assiste a un’evoluzione deprimente: da bambina dipingevo la libertà, lunghe spiagge sabbiose, isole deserte in mezzo al mare, enormi città piene di auto e persone. Poi, mentre il mio tratto diventava più elegante e la mia tecnica più matura, i soggetti si sono conformati all’unica realtà che conosco. Boschi bui. Anfratti bui. Facce buie che si voltano dall’altra parte.

Rimetto a posto la cartella. Portarla con me significherebbe portare con me anche il bosco e la mia vita qui, trascinarmi dietro gli anni di prigionia come una palla al piede. Ma voglio davvero abbandonare tutto, anche i pochi momenti belli? Mi cade l’occhio sul cofanetto con le pigne, sopra la cassettiera davanti alla finestra. Me le ha regalate Jannik quando ho compiuto dodici anni. Lui ne aveva solo quindici e ha trascorso ore nel bosco in cerca di qualcosa di bello per me. In quella stagione non avrebbe trovato fiori e dei sassi me li aveva regalati per il compleanno precedente. Così ha scelto quelle dieci pigne, che da allora conservo nello scrigno perché non si rovinino, al riparo da polvere e sguardi estranei. Se sparisse all’improvviso attirerebbe l’attenzione. Non posso portare via niente, nemmeno i ricordi che ho di lui.

La cucina è una baraonda di schiuma e stoviglie bagnate. Theo ha riempito il lavello fino all’orlo e litiga con Henna per essere il primo a giocare nell’acqua con le macchinine. Non ho la forza di intervenire. E comunque presto dovranno cavarsela per conto loro.

Esco di casa e vado verso il bosco, superando l’orto con le grosse zucche gialle che riposano sulla terra come teste mozzate, i due noci marroni, i sorbi e la legnaia con la scorta per l’inverno, fino alla sorgente che zampilla su una roccia dalla forma stramba disperdendosi in rivoli.

I minerali che venano la pietra fanno brillare l’acqua come cristallo liquido. Allungo la mano sotto il getto e osservo le gocce che scorrono sulla mia pelle. Il freddo è una sensazione familiare, crea un legame tra me e l’acqua, la casa, la montagna con i suoi fantasmi. È il sangue trasparente del bosco che mi penetra dentro sempre di più, impregna il terreno, si solleva ai miei passi e precipita su di me in una coltre di nebbia. Un giorno, in questa nebbia, scompariranno tutti i miei ricordi, gli ultimi resti di quella che ero. È inevitabile, se rimango qui.

Una macchina si avvicina dal lato opposto. Nella bruma distinguo soltanto il riflesso abbagliante dei fari. Il motore si spegne, due portiere sbattono. In casa spariscono immediatamente tutte le luci. A papà non piace che si contravvenga alle sue regole per risparmiare sulla corrente elettrica. In lontananza vedo Jannik venirmi incontro. È sporco dalla testa ai piedi, agli scarponi è attaccato uno spesso strato di fango che rende pesanti le sue gambe. Mentre cammina si toglie il giaccone e si inginocchia accanto al rigagnolo sotto la sorgente. Beve come se stesse morendo di sete. Mi inginocchio al suo fianco e gli stringo il braccio, vorrei percepirlo con la stessa intensità con cui percepisco l’acqua e me stessa, lui però continua a bere. Beve, beve e beve.

“Pensavo ci metteste di più,” dico per rompere il silenzio. Ci vuole tempo per scavare una fossa.

“Mi sono sbrigato.”

“Stai bene?”

“Sì.”

Finalmente smette di bere. Apre gli occhi e fissa le rocce che ha davanti. Il suo corpo è scosso da un leggero tremito, e io vorrei alzarmi e portargli il giaccone, abbandonato sull’erba poco più in là. In quell’istante, lui si china in avanti e infila la testa sotto l’acqua. Il freddo pungente gli fa contrarre il viso, ma resta immobile. Come me, vuole dimenticare, ha bisogno del gelido velo grigio che anestetizza ogni cosa.

“Jannik,” lo chiamo per riscuoterlo.

Si volta lentamente. I suoi occhi sono più chiari del solito, come se l’acqua limpida avesse lavato via un’ombra scura. Lo allontano con delicatezza dal getto, lui guarda il cielo e fa un respiro profondo.

“Sono così stanco,” dice.

“Sono stanca anch’io.”

“Quando vai in città?”

“Domani.” La mia voce si affievolisce nel pronunciare quella parola. Domani lo abbandonerò.

“Allora controllo di nuovo la Lada, per sicurezza. Il viaggio è lungo.” Si alza.

“Non vuoi riposarti?”

Ma lui ha già raccolto il giaccone e sta tornando alla macchina.

Domani.

Piango. Ci sono così tante cose che non gli dirò mai.

3

Il berretto è sui binari. Come depositato lì dal vento. La sporcizia attaccata alle fibre di lana rossa sembra raccontare una storia: una bambina corre a perdifiato nel bosco. Sola, terrorizzata. Sta fuggendo da qualcosa. Da un mostro che vuole mangiarla. Il terreno è zuppo e scivoloso. Lungo un ripido pendio la bambina perde l’equilibrio, scivola nel fango, le vola via il berretto, ma lei non si volta a riprenderlo. Non le resta molto tempo. Riesce già a vedere i binari della ferrovia. Oltre quelli c’è la libertà. Una porta a cui bussare, la salvezza tanto sognata. La bambina si rimette in piedi ansimando. Nella caduta si è sbucciata le ginocchia e ha il vestito infangato, ma continua a correre, con le ultime forze che le restano. I passi alle sue spalle sono sempre più vicini. Forse è troppo stremata per chiedere aiuto. Comunque sia, all’aperto non l’avrebbe sentita nessuno.

Da qui in avanti la storia si smarrisce tra le conifere scure e bagnate di pioggia. Trascinata lontano da qualcosa che non si può comprendere. Il fango ha risucchiato tutte le tracce. Tutte, tranne quel berretto. La bambina non ce l’ha fatta a uscire dal bosco. Chi le dava la caccia è stato più veloce.

“Hai trovato qualcosa?” grida Richter dall’altro lato della stazione.

Sarah esita. Il berretto potrebbe essere di chiunque. Forse i bambini giocano spesso vicino a quel tronco ferroviario abbandonato. I binari arrugginiti invasi dall’erba, che sembrano proseguire all’infinito in mezzo al bosco, sono il sogno di tutti i piccoli esploratori in cerca di avventura. Nell’eccitazione può capitare di perdere qualcosa. Il berretto rosso potrebbe appartenere a una bambina qualsiasi. Una bambina che ora sta bene perché è a casa con i genitori, al sicuro.

Ma quello nel fango non è un berretto qualsiasi. E appartiene a una bambina svanita nel nulla da oltre una settimana. Lola, dodici anni. Per questo loro sono lì. All’improvviso svanisce ogni dubbio.

“Sì,” risponde Sarah. “Credo di aver trovato qualcosa.”

Grosse gocce di pioggia spazzano foglie e aghi dal parabrezza della BMW. È stata un’idea di Richter lasciarla sotto il gruppo di alberi al limitare del bosco. Cofano e tettuccio sono disseminati di escrementi di uccelli. Sarah detesta i boschi. Sono sempre umidi e bui, e al loro interno spariscono troppi bambini.

“Quando sapremo se il berretto è di Lola?” domanda salendo in macchina.

“Spero entro le prossime quarantott’ore. Ho detto ai tecnici di sbrigarsi.”

Bene. Sarebbe il primo indizio. Sono passati dieci giorni, da quando Lola non è più tornata a casa da scuola. Esattamente come un’altra bambina, sei mesi fa. E un’altra ancora. Tutte e tre hanno lasciato soltanto un enigma da risolvere. Sarah ha interrogato gli amici e i compagni di classe, le famiglie, gli insegnanti, i vicini. Nessuno ha visto nulla. Come se le bambine fossero sparite dalla faccia della Terra, ma adesso è spuntato fuori quel berretto. Per un colpo di fortuna, o per puro caso, qualche giorno prima a un abitante della zona è sembrato di sentire un bambino che gridava nel bosco e ha informato la polizia locale. Poco dopo sono arrivati loro. Sarah non sa ancora dove li porterà tutto questo, ma intende scoprirlo.

“Tempo schifoso.” Il viso di Richter si adombra, mentre aziona i tergicristalli e accende i fari. Un fioco cono di luce taglia il crepuscolo e illumina il tratto fino alla strada. “Se la bambina è là fuori, non ha alcuna possibilità con questo freddo. Sempre che sia ancora viva.”

“Hai già chiamato i genitori per informarli del berretto?”

“Sì. Il padre non è sicuro, la madre però sostiene che Lola non possiede un berretto rosso.”

“Non vuol dire nulla. Potrebbe averglielo dato il rapitore.”

“L’ho pensato anch’io.”

“E se le procura dei vestiti, c’è una probabilità che sia ancora viva.”

“Aspettiamo i risultati del laboratorio.”

La BMW sobbalza attraversando un passaggio a livello, i binari abbandonati piombano di nuovo nell’oscurità. La stretta strada di campagna finisce dopo una curva e si immette nella provinciale che corre lungo il fiume, tra le montagne coperte di boschi. St. Nikola an der Donau, che buco sperduto. Sarebbe anche carino, con la piccola chiesa e le casette colorate, ma è lontano chilometri dalla scuola di Lola a Ybbs. Non è un buon segno che l’aggressore si muova in un raggio così ampio per trovare le sue vittime. Potrebbe nascondersi ovunque. Lola l’ha presa a Ybbs, la piccola Henna mentre andava a scuola dalle parti di Linz. Tutte quelle bambine, e nessuna aveva lasciato una traccia.

A prima vista sembra che tra le scomparse non ci sia alcun collegamento, variano per età e aspetto, e a volte tra un rapimento e l’altro sono passati anni. Allo stesso tempo, però, non può trattarsi di semplici coincidenze. Da qualche parte là fuori è in agguato un mostro, che a intervalli irregolari va a caccia di bambini.

E Sarah stanerà quel mostro.

A tarda sera è alla finestra della cucina. Sul vetro si riflette la chiazza pallida del viso, che i capelli legati rendono ancora più incavato. Guarda il parco giochi di proprietà del caseggiato accanto. Altalene vuote dondolano al vento, come se fino a un attimo prima ci fossero stati seduti dei bambini. I bambini che Sarah vede correre e ridere ogni giorno. Bambini con berretti rossi e con berretti blu, bambini pieni di gioia e di vita. In certi momenti deve ascoltare attentamente la sua voce interiore per ricordarsi che quei bambini non sono in pericolo. Che sono sani e salvi nei loro letti e nessun maniaco può avvicinarsi a loro.

“Non hai sonno nemmeno tu?”

Markus entra in cucina per prendere un bicchiere d’acqua. Era già a letto quando è tornata a casa un’ora fa, e non aveva voluto svegliarlo. La sorprende spesso in piedi davanti a quella finestra, la osserva perdersi nei propri pensieri di bambini che non ha mai incontrato, di bambini che non sono mai diventati grandi, di bambini che non sono mai esistiti. Non le chiede più il perché. Conosce il motivo.

“Colpa del tempo,” risponde lei. “Mi rende nervosa.”

“Dove sei stata?” Gli occhi di Markus si spostano sulle scarpe infangate, che Sarah ha lasciato in corridoio con la suola rivolta verso l’alto.

“Nel bosco.”

“E adesso come stai?”

“Bene.”

Lui beve, senza smettere di fissarla. Hanno stretto un patto: tra loro non parlano dei bambini scomparsi. Niente domande, benché Markus sia curioso. Certe cose, Sarah deve lasciarle fuori dalla porta, altrimenti anche quell’appartamento diventerebbe freddo e buio come i boschi. “Ti va di parlarne?” tenta lo stesso.

Sarah scuote la testa, ma per Markus è un libro aperto. Sa come smascherarla e non esita a metterla con le spalle al muro. È una delle ragioni per cui lo ha sposato: non ha paura – di niente, le sembra a volte –, mentre lei teme sempre qualcosa. Teme che Lola stia morendo in quel preciso istante. Teme l’incontro con i genitori ai quali deve comunicare la terribile notizia. Teme che un giorno il parco giochi resti vuoto perché i bambini che ci giocano sono stati portati via da tutti i mostri di questo mondo. Naturalmente è un istinto irrazionale. Ha imparato presto a soffocare le proprie paure. Solo così si sopravvive a quel mestiere, relegando i sentimenti nel profondo.

Markus posa il bicchiere vuoto nel lavello e le dà un bacio sulla fronte. “Non fare troppo tardi,” dice, e torna a letto.

Se non la capisse così bene, se ne sarebbe andato già da un pezzo. Avrebbe fatto le valigie, lasciandola sola con i suoi demoni. L’insensibilità avvelena ogni rapporto. Per fortuna l’amore di Markus è grande, tanto da bastare per entrambi nei momenti difficili.

4

A cena ci sono gli avanzi di ieri: qualche fetta di pane, salsiccia e tre mele, che Henna e Theo si litigheranno di nuovo. Il tè freddo fatto in casa e troppo dolce pulisce la bocca dal gusto insipido della minestra di zucca. I bambini l’hanno lasciata a me perché detestano la zucca.

Nelle ultime settimane prima dell’inverno dominato dalle scatolette, di solito faccio in modo di assicurare a tutti una bella scorpacciata. Con le verdure che coltiviamo nell’orto preparo zuppe, sformati e gratin a cui aggiungo i funghi che ho raccolto a bizzeffe nel bosco a fine estate. Ce ne sono ovunque, specialmente porcini, mazze di tamburo e finferli, che crescono soprattutto nei campi di mirtilli vicino al vecchio mulino. Quest’anno ne ho rimediati sette chili. Li lascio seccare e li metto da parte per l’inverno, così il riso, le patate e la carne in scatola acquistano un po’ di sapore.

Mi occupo di molte cose qui dentro. Chi ci penserà, quando me ne sarò andata? Papà è bravo ad abbattere selvaggina e riparare motori, ma non ha la più pallida idea di come si manda avanti una casa. I miei doveri ricadranno su Jannik, sempre che non gli spacchi la testa dalla rabbia perché sono fuggita. Non voglio più pensarci.

Come al solito, mangiamo in silenzio. A papà non piace che si parli a tavola, a meno che non sia lui a toccare uno dei suoi argomenti preferiti, come la caccia. Spesso passa l’intera giornata nel bosco e quello che prende lo vende a un prezzo elevato ai macellai e alle piccole botteghe della zona, permettendoci di vivere decentemente. Ma per lui la caccia non è solo una fonte di guadagno, gli procura anche un immenso piacere. Jannik dice che potrebbe sparare alle pulci nel pelo di una volpe, se volesse. Centra un bersaglio da cento metri di distanza. Perciò non sarebbe saggio mettersi a correre e non fermarsi, ti prenderebbe. È questo che Lola non ha considerato.

Quando tutti hanno finito, sparecchio e mi ritiro in cucina a rigovernare. Nika, che si trascina al pianoterra solamente all’ora dei pasti, non ha nemmeno toccato il suo piatto, mentre i piccoli hanno ingurgitato il più possibile per non svegliarsi affamati domani. Da noi non si fa colazione. Il più delle volte papà dorme fino a tardi.

Apro il rubinetto per coprire la sua voce calma e profonda. Però sento lo stesso quello che dice.

“Siete sazi, bambini?”

Dal silenzio che segue intuisco che Henna e Theo scuotono la testa. Sanno cosa succede dopo cena e si ingozzerebbero fino a scoppiare per rimandarlo anche soltanto di un po’. La risata imperturbabile di papà affossa le loro speranze.

“Avete mangiato abbastanza. Forza, bambini, andiamo a letto.”

Le sedie strusciano sul pavimento. Sbircio di nascosto alle mie spalle e vedo Henna e Theo rintanati nell’angolo opposto della stanza. Si aggrappano l’uno all’altra, gli occhi sgranati e supplichevoli lucidi di lacrime. Per un attimo ho paura che implorino aiuto come facevano all’inizio. Ma naturalmente adesso hanno imparato che non li aiuteremo. Che non possiamo aiutarli. Senza fiatare, seguono papà fuori dalla Stube, su per le scale e in camera loro. Dopo un lungo, angoscioso momento la porta sbatte e le assi di legno scricchiolano. Noi tre sussultiamo. Io riprendo a lavare i piatti, Nika accende il vecchio televisore a tubo catodico piazzato sullo sgabello, Jannik esce e inizia a spaccare legna come un ossesso. Ciascuno a modo suo, cerchiamo di tenere lontani i rumori che arrivano da sopra.

Quando ho sciacquato e risciacquato anche l’ultimo bicchiere, Jannik torna dentro. In mano non ha nemmeno un ciocco. Prima si siede al tavolo e tenta di condividere il concentrato interesse di Nika per il melenso film in bianco e nero, poi viene in cucina e lava di nuovo i piatti puliti.

“Secondo te posso andare su?” bisbiglio.

Jannik ascolta il silenzio che pervade la casa. “Aspetta ancora qualche minuto. Ci mette molto a prendere sonno.”

Seguo il suo consiglio e intanto asciugo i piatti, mentre lui si siede di nuovo accanto a Nika senza dire nulla. Alla fine salgo le scale ed entro di soppiatto in camera di Henna e Theo.

La stanza è stipata di armadi e cassettiere, e in fondo, ben nascosto, c’è il letto. L’oscurità e la puzza di sudore mi fanno battere più forte il cuore. I piedi nudi di papà spuntano dal materasso, è troppo grosso per il lettino di Henna. Una coperta si scosta piano nella penombra, due piccole sagome scivolano giù e uno scalpiccio di passi mi supera di corsa. Apro la porta di camera mia e di Jannik e lascio entrare i bambini. Le parole sono inutili. Niente di quanto potrei dire o fare cancellerà mai il senso di vergogna dalle loro anime e tanto meno laverà lo sporco dai loro corpi, compatto come uno strato di catrame. L’unico aiuto è un posto buio e appartato dove possono piangere e singhiozzare, dove possono stare per conto loro, dove nessuno può avvicinarli. La compagnia è l’ultima cosa che vogliono in questo momento. Sono a pezzi, e soltanto in solitudine avranno il tempo di guarire.

Chiudo la porta a chiave perché sappiano che nessuno entrerà tranne me e Jannik. Poi torno indietro a controllare che papà dorma ancora. Sul comodino ticchetta una vecchia sveglia. I piedi che spuntano dal materasso non ci sono più. Un movimento nell’oscurità e la luce si accende con un leggero clic.

“Me li hai portati via un’altra volta, eh? Gattina svergognata.”

È seduto sul letto, le gambe allungate e un sorriso esausto in faccia.

“Ti chiamavo così, ricordi? Mordevi e graffiavi come una gatta selvatica.”