Giulio Verne
DALLA TERRA ALLA LUNA
TRAGITTO IN 97 ORE E 20 MINUTI
Traduzione Di G. Pizzigoni
Copyright © 2020 Mauro Liistro Editore
Alcuni i diritti riservati.
Codice ISBN: 9798609745996
Durante la guerra federale degli Stati-Uniti, nella città di Baltimora, quindi nel bel mezzo del Maryland, si costituì un nuovo ed influentissimo club. È noto con quanta energia sviluppossi l'istituto militare presso questo popolo di armatori, di mercanti e di meccanici. Semplici negozianti scavalcarono il loro banco per improvvisarsi capitani, colonnelli, generali, senza essere passati per le scuole d'applicazione di West-Point1; in breve essi uguagliarono nell'«arte della guerra» i loro colleghi del vecchio mondo, ed al pari di loro riportarono qualche vittoria a furia di prodigare palle da cannone, i milioni e gli uomini.
Ma dove gli americani superarono di molto gli Europei fu nella scienza della balistica. Non già che le loro armi raggiungessero un grado maggiore di perfezione, ma esse offrirono dimensioni inusitate ed ebbero perciò lunghezze di tiro fin allora sconosciute. In fatto di tiri radenti, ficcanti o di lancio, di fuochi di sbieco, d'infilata o di rovescio, gl'Inglesi, i Francesi, i Prussiani non hanno più nulla da imparare: ma i loro cannoni, i loro obici e i loro mortaj non sono che pistole da tasca in confronto dei formidabili arnesi da guerra dell'artiglieria americana.
Ciò non deve meravigliare nessuno. I Yanckees, primi meccanici del mondo, sono ingegneri come gl'italiani sono musicisti ed i Tedeschi metafisici dalla nascita. Nulla di più naturale, quindi, del vederli apportare nella scienza della balistica l'audace loro ingegno. Di quà giganteschi cannoni, meno utili assai delle macchine da cucire, ma sorprendenti del pari ed ancor più ammirati. Si conoscono in questo genere le meraviglie di Parrot, di Dahlgreen, di Rodman: agli Armstrong, ai Palliser ed al Treuille di Beaulieu più non rimase che inchinarsi davanti al loro rivali d'oltremare.
Quindi durante la lotta terribile dei Nordisti e dei Sudisti, gli artiglieri formavano legge; e i giornali dell'Unione celebravano le loro invenzioni con entusiasmo, nè eravi sì meschino mercantuccio, sì ingenuo «booby»2 che non si lambiccasse il cervello giorno e notte per calcolare traiettorie insensate.
Ma quando un americano ha un'idea, egli va in traccia di un secondo americano che la condivida. Se sono tre, eleggono un presidente e due segretari. Se quattro, nominano un archivista, e l'uffizio funziona. Se cinque, si convocano in assemblea generale, ed il club è costituito. Così accadde a Baltimora. Il primo che inventò un nuovo cannone si associò col primo che lo fuse ed il primo che lò forò. Tale fu il nocciolo del Gun-Club3. Un mese dopo la formazione, esso contava mille e ottocentotrentatrè membri effettivi e trentamila e cinquecentosettantacinque membri corrispondenti.
Una condizione sine qua non era imposta a chiunque voleva entrare nella società; la condizione cioè di aver immaginato o, quanto meno, perfezionato un cannone; in mancanza di cannone, un'arma da fuoco qualunque. Ma per dire tutto gl'inventori di revolver a quindici colpi, di carabine a ripetizione o di sciabole revolver non godevano molta considerazione. In qualsiasi circostanza gli artiglieri avevano il disopra.
— La stima che ottengono, disse un giorno uno dei più dotti oratori del Gun-Club, è proporzionata «alle masse» del loro cannone, e «in ragione diretta del quadrato delle distanze raggiunto dai loro proiettili».
Quasi quasi era la legge di Newton sulla gravitazione universale trasportata nell'ordine morale.
Fondato il Gun-Club è facile figurarsi ciò che in questo genere produsse il genio inventivo degli Americani. Gli arnesi di guerra presero proporzioni colossali, ed i proiettili andarono di là dai limiti permessi a tagliare in due gli offensivi passeggianti. Tutte queste invenzioni si lasciarono indietro d'un bel tratto i timidi istrumenti dell’artiglieria europea. Si giudichi dalle cifre seguenti:
Una volta «nei bei tempi» una palla da trentasei, alla distanza di trecento, piedi, attraversava trentasei cavalli presi di fianco e sessantotto uomini. Era l'infanzia dell'arte. D'allora in qua i proiettili hanno percorso tanta strada. Il cannone Rodman, che lanciava a sette miglia una palla del peso di mezza tonnellata4, avrebbe facilmente abbattuto centocinquanta cavalli e trecento uomini. Si trattò anzi al Gun Club, farne una prova solenne. Ma se i cavalli acconsentirono all'esperimento, disgraziatamente gli uomini non ebbero tale condiscendenza.
Checché ne sia, l'effetto di questi cannoni era micidialissimo, e ad ogni scarica i combattenti cadevano come spiche sotto la falce. Che cosa era mai, a petto di siffatti proiettili, la famosa palla che a Coutras, nel 1587, mise venticinque uomini fuori di combattimento, e l'altra che, a Zordnoff, nel 1758; uccise quaranta fanti, e, nel 1742, il cannone austriaco di Kesselsdorff, ogni colpo del quale buttava giù settanta nemici? Che cosa erano i sorprendenti fuochi di Jena e d'Austerlitz, che decidevano dell'esito della battaglia? Ben altro erasi veduto durante la guerra federale! Al combattimento Gettysburg, un proiettile conico lanciato da un cannone rigato colpì centosettantatre confederati, ed al passaggio del Potomac una palla Rodman mandò in un mondo evidentemente migliore dugento quindici Sudisti. Vuolsi ricordare parimente un mortajo formidabile inventato da J. T. Maston, membro distinto e segretario perpetuo del Gun-Club, il cui risultato fu ben altrimenti micidiale, giacché alla scarica di prova uccise trecentotrentasette persone, – scoppiando, però.
Che mai aggiungere a questi numeri sì eloquenti per sè stessi? Nulla. Si ammetterà quindi senza contrasto il seguente calcolo, ottenuto dallo statista Pitcairn: dividendo il numero delle vittime cadute sotto le palle di cannone per quello dei membri del Gun-Club, egli trovò che ognuno di questi aveva ucciso per proprio conto una «media» di duemila trecentosettantacinque uomini ed una frazione.
Se si considera tal cifra, è evidente che l'unica preoccupazione di questa dotta società fu la distruzione dell'umanità per scopo filantropico, ed il perfezionamento delle armi da guerra considerate come istrumenti di civiltà. Era una riunione di angeli sterminatori, e viceversa i più bravi figliuoli della terra.
Si aggiunga che questi Yanckees, coraggiosi a tutta prova, non si accontentarono delle formole, ma pagarono anco di persona. Noveravansi tra essi uffiziali di ogni grado, luogotenenti o generali, militari d'ogni età, coloro che esordivano nella carriera delle armi, coloro che invecchiavano sull'affusto. Molti rimasero sul campo di battaglia, e i nomi di costoro apparivano registrati sul libro d'onore del Gun-Club, e quelli che ritornarono per la maggior parte portavano i segni della loro indiscutibile intrepidezza. Grucce, gambe di legno, braccia finte, mani a ganci, mascelle di cautsciù, crani d'argento, nasi di platino, nulla mancava alla collezione, ed il suddetto Pitcairn calcolò parimenti che nel Gun-Club, non v'era precisamente un braccio per quattro persone, e solamente due gambe per sei.
Ma questi valenti artiglieri non guardavano tanto pel sottile, ed a buon diritto andavano orgogliosi quando il bollettino di una battaglia portava un numero di vittime decuplo della quantità di proiettili lanciati.
Un giorno poi, giorno triste e malaugurato, la pace fu sottoscritta fra i sopravvissuti alla guerra le detonazioni cessarono ad un tratto, i mortaj tacquero, gli obici tappati per molto tempo, ed i cannoni a testa bassa fecero ritorno agli arsenali, le palle ammucchiaronsi nei parchi, i ricordi sanguinosi impallidirono, le piante di cotone crebbero a meraviglia sovra i campi abbondantemente ingrassati, gli abiti di lutto finirono di sdruscirsi col dolore, e il Gun-Club rimase immerso in una profonda inazione.
Certi zappatori dell'umanità, certi lavoratori accanniti si dedicavano bensì ancora a calcoli di balistica; essi sognavano sempre bombe gigantesche ed obici incomparabili. Ma senza la pratica a che tante vane glorie? Anche le sale diventavano deserte, i servi dormivano nelle anticamere. I giornali ammuffivano sulle tavole, i cantucci oscuri echeggiavano di un russare malinconico, ed i membri del Gun-Club, una volta così chiassosi, ora ridotti al silenzio da una pace disastrosa addormentavansi nei vaneggiamenti dell'artiglieria platonica.
— È desolante! disse una sera il bravo Tom Hunter mentre le sue gambe vegetali si carbonizzavano al cammino del fumatoio. Nulla da fare! nulla da sperare! Che vita fastidiosa! Dov'è ito il tempo in cui il cannone ci destava ogni mattina con le sue allegre detonazioni?
— Quel tempo non è più! rispose l'arzillo Bilsby tentando di stirarsi le braccia che gli mancavano. Era un piacere allora! inventavasi un obice, e, non appena fuso, si correva a provarlo dinnanzi al nemico; poi si ritornava al campo con un incoraggiamento di Sherman od una stretta di mano di Mac-Clellan! Ma oggi, i generali sono tornati al loro banco, ed invece di proiettili spediscono inoffensive balle di cotone! Ah! per santa Barbara! l'avvenire dell'artiglieria è perduto in America.
— Sì, Bilsby, clamò il colonnello Blomsberry, questi sono disinganni crudeli! Un bel giorno si abbandonano le abitudini pacifiche, si fanno gli esercizi militari, si dà un addio a Baltimora pei campi di battaglia, si agisce da eroi, e due anni, tre anni dopo, bisogna perdere il frutto di tante fatiche, addormentarsi in un deplorevole ozio e cacciarsi le mani in tasca.
Checchè avesse potuto dire, il valoroso colonnello si sarebbe trovato impacciatissimo se avesse voluto offrire la prova della sua inazione... eppure non eran già le tasche che gli mancassero.
— E nessuna guerra in prospettiva! disse allora il famoso J. T. Maston grattandosi col suo gancio di ferro il cranio di guttaperca. Non una nube sull'orizzonte, e questo quando c'è tanto da fare nella scienza dell'artiglieria! Io che vi parlo, ho finito stamane un disegno con piano alzato a sezione d'un mortajo destinato a mutare le leggi della guerra.
— Davvero? replicò Tom Bunter pensando involontariamente all'ultimo saggio dell'onorevole J. T. Maston.
— Davvero? rispose quest'ultimo. Ma a che serviranno tanti studî condotti a buon termine, tante difficoltà vinte? Non un lavorare in pura perdita? I popoli del nuovo mondo pare siansi data la parola di vivere in pace, la nostra bellicosa Tribune5 giunge fino a pronosticare vicine catastrofi, dipendenti dall'accrescimento scandaloso delle popolazioni!
— Eppure, Maston, riprese il colonnello Blomsberry, in Europa si fa guerra ad ogni momento per sostenere il principio di nazionalità.
— E così?
— E così, forse, ci sarebbe qualcosa da tentare laggiù, e se si accettassero i nostri servigi...
— Ma vi pare! sclamò Bilsby, studiare la balistica a profitto degli stranieri!
— Sarebbe sempre meglio del trascurarla affatto, ribatte il colonnello.
— Senza dubbio, rispose J. T. Maston, sarebbe meglio, ma non bisogna pensarci neppure a questo spediente.
— E perchè? domandò il colonnello.
— Perchè gli uomini del vecchio continente hanno certe idee sugli avanzamenti, che disturberebbero tutte le nostre abitudini americane. Quella gente là non si capacita che si possa diventare generale in capo prima di aver servito come sottotenente; ciò che equivarrebbe al dire che uno non può essere un buon puntatore se non ha fuso il cannone egli stesso! Ora è semplicemente...
— Assurdo? replicò Tom Hunter tagliuzzando i bracciuoli del suo seggiolone a colpi di bowieknife6, e giacché le cose son giunte a tal segno, non ci rimane altro che piantar tabacco o distillare olio di balena.
— Come! esclamò J. T. Maston con voce rimbombante, questi ultimi mesi della nostra esistenza non li impiegheremo al perfezionamento delle armi da fuoco! non si offrirà una nuova occasione di provare la portata dei nostri proiettili! Il lampo dei nostri cannoni non illuminerà più l'atmosfera! Non sorgerà una difficoltà internazionale che ci permetta di dichiarar la guerra a qualche potenza transatlantica! i Francesi non manderanno a picco uno solo dei nostri steamers, e gl'Inglesi non impiccheranno, in barba al diritto delle genti, tre o quattro nostri connazionali!
— No, Maston, rispose il colonnello Blomsberry, noi non avremo questa fortuna! No. Non ne nascerà neppur uno di questi incidenti, e se anco nascesse non ne profiteremmo! La suscettibilità americana sfuma di giorno in giorno, e noi caschiamo nella conocchia.
— Sì, noi ci umiliamo! aggiunse Bilsby.
— E ci si umilia! replicò Tom Hunter.
— Purtroppo ciò è vero, rispose J. T. Maston con nuova veemenza. Ci sono nell'aria mille ragioni di battersi, e nol si fa! Si risparmiano braccia e gambe, e questo beneficio di gente che non sa trarne profitto! Sentite, senza cercare tanto lontano un motivo di guerra: l'America del nord non ha appartenuto un tempo agl'Inglesi?
— Senza dubbio, rispose Tom Hunter stuzzicando rabbiosamente il fuoco coll'estremità della sua gruccia.
— Ebbene! riprese J. T. Maston, perchè mo l'Inghilterra a sua volta non apparterrebbe agli Americani?
— Sarebbe pura giustizia, rispose il colonnello Blomsberry.
— Andate a propor ciò al presidente degli Stati-Uniti, esclamò J. T. Maston, e vedrete come vi riceverà!
— Ci riceverà male, mormorò Bilsby fra i quattro denti che aveva salvati dalla battaglia.
— Affè mia, sclamò J. T. Maston, alle prossime elezioni sta fresco, se conta sul mio voto!
— Ovvero sui nostri! risposero ad una voce que' bellicosi invalidi.
— Intanto, riprese J. T. Maston, e per conchiudere, se non mi si fornisce l'occasione di far le prove del mio mortajo sopra un vero campo di battaglia, io do la mia dimissione da membro del Gun-Club, e corro a seppellirmi nelle savanne dell'Arkansas.
— Noi vi seguiremo, risposero gl'interlocutori dell'audace J. T. Maston.
Ora le cose erano a tal punto, gli spiriti si infervorarono sempre più, ed il Club era minacciato di una vicina dissoluzione, quando un avvenimento giunse ad impedire questa increscevole catastrofe.
La domane di questa conversazione, ciascun membro del circolo riceveva una circolare concepita nei termini seguenti:
«Baltimora, 3 ottobre.
«Il presidente del Gun-Club ha l'onore d'avvertire i suoi colleghi che nella seduta del 5 corr. egli farà loro una comunicazione di tal natura da impressionarli vivamente. E però egli li prega di metter tutto da parte, e rispondere all'invito dato colla presente circolare.
«Il loro devoto collega
«Impey Barbicane, P. G. C.»
Il 5 ottobre, alle otto di sera, una folla compatta pigiavasi nelle sale del Gun-Club, N. 21, Union-Square. Tutti i membri del circolo residenti a Baltimora eransi mossi all'invito del loro presidente. Quanto ai membri corrispondenti, i treni diretti li sbarcavano a centinaia sulle vie della città, e per quanto grande fosse la hall delle sedute, tanto numero di dotti non avea potuto trovarvi posto; que' signori rigurgitavano nelle sale attigue, in fondo ai corridoi, e perfino nel mezzo dei cortili esterni; lì essi incontravano il popolo minuto che faceva ressa alle porte, tentando ognuno di farsi strada alle prime file, avidi tutti di conoscere l'importante comunicazione del presidente Barbicane, spingendosi, urtandosi, schiacciandosi con quella libertà d'azione speciale alle masse educate colle idee del Self government7.
Quella sera uno straniero che si fosse trovato a Baltimora non avrebbe ottenuto, neppure a prezzo d'oro, di aver accesso nella sala maggiore; questa era esclusivamente riservata ai membri residenti in luogo o corrispondenti: nessun altro poteva pigliarvi posto, e le persone più importanti della città, i magistrati del consiglio. dei Selectmen8 avevano dovuto frammischiarsi alla folla dei loro amministrati per cogliere al volo le notizie dell'interno.
Intanto l'immensa hall offriva agli sguardi un curioso spettacolo. Quel vasto locale era maravigliosamente adatto alla sua destinazione. Alte colonne formate di cannoni sovrapposti, ai quali servivano di base grossi mortai, sostenevano le esili armature della volta, veri merletti di ferro fuso. Panoplie di spingarde, di tromboni, d'archibugi, di carabine, di tutte le armi da fuoco antiche e moderne, si postavano sui muri, intrecciandosi fra loro in modo pittoresco. Le fiamme del gas guizzavano da un migliaio di revolvers aggruppati a lumiere, e girandole di pistole e candelabri fatti con fucili riuniti in fasci completavano quella splendida illuminazione. I modelli di cannoni, i saggi dei bronzi, i bersagli crivellati, le corazze spezzate dai proiettili del Gun-Club, le varietà di ricalcatoie e di scovoli, i rosari di bombe, le collane di proiettili, le ghirlande di obici, in una parola tutti gli attrezzi dell'artiglieria, sorprendevano l'occhio colla loro meravigliosa disposizione, e lasciavano pensare che la loro vera destinazione fosse più decorativa che micidiale.
Al posto d'onore vedevasi, custodito in splendida vetrina, un pezzo di culatta, squarciato e contorto dallo sforzo della polvere, prezioso avanzo del cannone di J. T. Maston.
All'estremità della sala, il presidente, assistito da quattro segretari, occupava una larga spianata. Il suo seggio, posto su di un affusto cesellato, rappresentava nel suo insieme le forme robuste d'un mortajo di 32 pollici: esso era puntato sur un angolo di 90 gradi, e sospeso su orecchioni, in guisa che il presidente poteva imprimergli, come ai rockinh-chairs9, un moto ondulatorio gradevolissimo, nei calori estivi. Sul tavolo, vasta corazza di lamiera sostenuta da sei cannoni, vedevasi un calamaio di squisito disegno, formato da un biscaglino inciso con molta grazia, ed un timbro a detonazione che al bisogno sparava come un revolver. Durante le calorose discussioni, questo campanello di nuova foggia bastava a mala pena a coprire la voce di quella legione d'artiglieri in subbuglio.
Davanti al tavolo presidenziale, panchette disposte a zig-zag, come le circonvallazioni di un trinceramento, formavano una successione di bastioni e di cortine, ove pigliavano posto i membri del Gun-Club, e quella sera, si può dirlo, «v'era gente sui bastioni». Si conosceva abbastanza il presidente per sapere che egli non avrebbe incomodato i suoi colleghi senza un motivo della maggiore gravità.
Impey Barbicane era un uomo di quarant'anni, calmo, freddo, austero, di mente seriissima e concentrata; esatto come un cronometro, di eguaglianza d'umore a tutta prova, di carattere irremovibile; sebbene poco cavalleresco, menava una vita avventurosa, portando però sempre idee pratiche persino nelle sue più temerarie imprese; egli era l'uomo della nuova Inghilterra per eccellenza, il settentrionale colonizzatore, il discendente di quelle Teste Tonde sì funeste agli Stuard, e l'implacabile nemico dei gentlemen del Sud, antichi Cavalieri della madrepatria; in una parola un Yanckee di getto.
Barbicane aveva fatto una fortuna ingente nel commercio dei legnami; nominato direttore dell'artiglieria durante la guerra, si mostrò fecondo d'invenzioni; audace nelle idee, contribuì di molto ai progressi di quest'arma, e diede un incomparabile slancio alle ricerche sperimentali.
Era una persona di media statura, che aveva, per una rara eccezione nel Gun-Club, tutti i suoi membri intatti. I suoi lineamenti spiccatissimi parevano tracciati colla squadra e col tiralinee, e se è vero che, per indovinare gli istinti dell'uomo, devesi guardarlo di profilo, Barbicane, così veduto, offriva gl'indizî più certi dell'energia, dell'audacia e del sangue freddo.
In quel momento egli stavasene immobile nel suo seggiolone, muto, preoccupato, collo sguardo raccolto, ricoverato sotto il suo cappello di forma alta, cilindro di seta nera che sembra avvitato sui crani americani.
I suoi colleghi cicalavano rumorosamente intorno a lui senza distrarlo; essi interrogavansi, lanciavansi nel campo delle supposizioni, esaminavano il loro presidente e cercavano, ma invano di trovare l'incognita della sua imperturbabile fisonomia.
Quando scoccarono le otto all'orologio fulminante della sala maggiore, Barbicane, come se fosse stato spinto da una molla, rizzossi tosto; si stabilì un silenzio generale, e l'oratore con accento enfatico prese la parola in questi termini:
— Prodi colleghi, da troppo tempo già una pace infeconda è venuta ad immergere i membri del Gun-Club in una disperante atonia. Dopo un periodo di alcuni anni, sì ricchi d'incidenti, fu d'uopo abbandonare i nostri lavori ed arrestarci di colpo sulla via del progresso. Io non temo di proclamarlo ad alta voce, qualunque guerra che ci rimettesse colle armi in pugno sarebbe bene accolta....
— Sì, la guerra! esclamò l'impetuoso J. T. Maston.
— Ascoltate! Ascoltate! si udì ripetere da ogni parte.
— Ma la guerra, disse Barbicane, la guerra è impossibile nelle circostanze attuali, e, checchè possa sperarne il mio onorevole interruttore, lunghi anni passeranno ancora prima che i nostri cannoni tuonino sovra il campo di battaglia. Bisogna dunque rassegnarvisi, e cercare in altro ordine di idee un alimento all'attività che ci divora!
L'adunanza presentì che il presidente stava per toccare il punto delicato. L'attenzione raddoppiò.
— Da varî mesi, miei prodi colleghi, riprese Barbicane, ho chiesto a me stesso se, sempre attenendoci alla nostra specialità, noi non potremmo tentare qualche grande prova degna del secolo decimonono, e se i progressi della balistica non ci permetterebbero di drizzarla a più alto scopo. Ho dunque cercato, lavorato, calcolato, e da' miei studi è risultata la convinzione, che noi dobbiamo riuscire in un'impresa che potrebbe sembrare inattuabile a qualsiasi altro paese. Questo piano, elaborato a lungo, costituisce l'argomento della mia comunicazione; è degno di voi, degno del passato del Gun-Club, e non potrà mancare di far chiasso nel mondo.
— Molto chiasso? sclamò un appassionato artigliere.
— Molto chiasso nel vero senso della parola, rispose Barbicane.
— Non interrompete, ripeterono più voci.
— Vi prego adunque, egregi colleghi, ripigliò il presidente, di accordarmi tutta la vostra attenzione.
Un fremito corse per tutta l'assemblea; Barbicane cavatosi il cappello con rapido gesto, continuò il suo discorso con voce pacata.
— Non v'ha alcuno tra voi, onorevoli colleghi, che non abbia veduta la Luna, e tanto meno che non ne abbia udito parlare. Non vi sorprenda se qui vengo ad intrattenervi dell'astro della notte; a noi forse è riserbato di essere il Colombo di questo mondo sconosciuto. Comprendetemi, secondatemi con tutte le vostre forze, io vi guiderò alla sua conquista ed il suo nome si unirà a quelli dei trentasei Stati che costituiscono il gran paese dell'Unione!
— Urrà per la Luna! esclamò il Gun-Club ad una voce.
— Si è molto studiata la Luna, rispose Barbicane; la sua massa, la sua densità, il suo peso, il suo volume, la sua costituzione, i suoi movimenti, la sua distanza, la sua parte nel mondo solare sono perfettamente determinati; si sono fatte delle carte selenografiche con una perfezione che pareggia, se pure non la supera, quella delle carte terrestri; la fotografia ci ha dato effigie d'incomparabile bellezza del nostro satellite10. In una parola, si conosce della Luna tutto ciò che le scienze esatte, l'astronomia, la geologia, l'ottica possono apprenderci; ma fino ad oggi non è mai stata stabilita alcuna diretta comunicazione con essa.
Un violento movimento d'interesse e di sorpresa accolse queste parole.
— Permettetemi, egli riprese, di rammentarvi in poche parole in qual modo alcune teste calde, imbarcate per viaggi immaginari, pretesero di aver penetrato i secreti del nostro satellite. Nel secolo XVII, certo Davide Fabricius si vantò di aver veduto coi proprii occhi gli abitanti della Luna. Nel 1649 un francese, Giovanni Baudoin, pubblicò il viaggio fatto nel mondo della Luna da Domenico Gonzales, avventuriero spagnuolo. In quel torno Cirano di Bergerac diede alla luce quella celebre spedizione che fece tanto romore in Francia. Più tardi, un altro francese, – quella gente si occupa molto della Luna – il nominato Fontenelle, scrisse La pluralità dei Mondi, un capolavoro pel suo tempo; ma la scienza, nel progredire, annichila anche i capolavori! Verso il 1835, un opuscolo tradotto del New-York American raccontò che sir John Herschel, mandato al capo di Buona Speranza per farvi degli studi astronomici col mezzo di un telescopio perfezionato da una luce interna, aveva avvisato la Luna alla distanza di ottanta yards11. Allora egli avrebbe veduto distintamente delle caverne, nelle quali vivevano ippopotami, verdi montagne adorne di frange d'oro, montoni dalle corna d'avorio, caprioli bianchi, e abitanti con le ali membranose come quelle dei pipistrelli. Quest'opuscolo lavoro di un americano chiamato Locke12, ebbe un grandissimo successo. Ma presto si scoprì ch'era una mistificazione scientifica, ed i Francesi furono i primi a riderne.
— Ridere di un americano! esclamò J. T. Maston; ma quest'è un casus belli!....
— Rassicuratevi, mio degno amico. I Francesi, prima di riderne erano stati perfettamente gabbati dal nostro compatriotta. Per terminare il rapido cenno storico, aggiungerò che un certo Hans Pfaal di Rotterdam, slanciandosi in un pallone riempito di un gas estratto dall'azoto, e trentasette volte più leggero dell'idrogeno, raggiunse la Luna dopo diciannove giorni di viaggio. Questa corsa, al pari dei precedenti tentativi, era semplicemente immaginaria, ma fu l'opera di uno scrittore popolare in America, di un ingegno bizzarro e contemplativo: vo' dire di Edgardo Poë.
— Urrà per Edgardo Poë! esclamò all'unissono l'adunanza, elettrizzata dalle parole del suo presidente.
— Ho finito, riprese Barbicane, con questi tentativi, che chiamerò puramente letterarî, e perfettamente insufficienti a stabilire serie relazioni coll'astro della notte. Per altro devo aggiungere che alcune menti pratiche tentarono di mettersi in seria comunicazione con esso. Così, alcuni anni or sono, un geometra tedesco propose di mandare una commissione di dotti nelle steppe della Siberia. Quivi, su estese pianure, dovevansi stabilire immense figure geometriche, disegnate col mezzo di riflessori luminosi, fra i quali il quadrato dell'ipotenusa, volgarmente chiamato il Pont aux ânes dai Francesi. «Qualsiasi essere intelligente, diceva il geometra, deve comprendere la destinazione scientifica di questa figura. I luniti13, se esistono, risponderanno con una figura simile, e una volta stabilita la comunicazione, sarà facile il creare un alfabeto che permetterà d'intrattenersi cogli abitanti della Luna.» Così diceva il geometra tedesco, ma il suo piano non fu mandato ad effetto, nè finora nessun legame diretto è esistito fra la terra e il suo satellite. Ma è riserbato al genio pratico degli Americani di mettersi in comunicazione col mondo sidereo. Il mezzo per raggiungere tale intento è semplice, facile, certo, immancabile, e costituisce l'argomento della mia proposta.
Un frastuono, una procella di esclamazioni accolse queste parole. Non eravi uno fra gli astanti che non fosse dominato, trascinato, rapito dalle parole dell'oratore.
— Udite! udite! Silenzio dunque! Esclamavasi da ogni banda.
Quando l'agitazione generale si fu calmata, Barbicane ripigliò con voce più grave il suo discorso interrotto:
— Voi sapete, diss'egli, quali progressi ha fatto la balistica da alcuni anni in qua, ed a qual grado di perfezione sarebbero giunte le armi da fuoco se la guerra fosse continuata. Voi non ignorate neppure che, in un modo generale, la forza di resistenza dei cannoni e la scienza espansiva della polvere sono illimitate. Ebbene! partendo da questo principio, io ho chiesto a me stesso se coll'aiuto di un apparecchio sufficiente, stabilito in determinate condizioni di resistenza, non sarebbe possibile di mandare una palla nella Luna!
A queste parole un Oh! di stupore sfuggì da mille petti anelanti; poi vi fu un momento di silenzio simile alla quiete profonda che precede gli scoppî del tuono. E infatti, il tuono scoppiò, ma un tuono di applausi, di grida, di clamori, che fece tremare la sala della seduta. Il presidente voleva parlare, ma non poteva. Solamente dopo dieci minuti egli riuscì a farsi sentire.
— Lasciatemi terminare, egli riprese con freddezza. Ho esaminato la quistione sotto tutti i rapporti, l'ho affrontata risolutamente, e dai miei calcoli indiscutibili risulta che qualsiasi proiettile dotato della velocità iniziale di dodicimila jarde14 al secondo, e diretto verso la Luna, giungerà necessariamente fino ad essa. Io ho dunque l'onore di proporvi, miei prodi colleghi, di tentare questo piccolo esperimento.
È impossibile dipingere l'effetto prodotto dalle ultime parole dell'onorevole presidente. Quali grida! quali vociferazioni, quali successioni di grugniti, di urrà, di hip! hip! hip! e di tutte le onomatopeje che abbondano nella lingua americana! Era un disordine indescrivibile! un baccano indiavolato! Le bocche vociavano, le mani battevano, i piedi scuotevano il pavimento della sala. Se tutte le armi da fuoco di quel museo di artiglieria avessero sparato nello stesso istante non avrebbero agitate le onde sonore con violenza maggiore. Ciò non può sorprendere. Vi sono cannonieri che fanno tanto strepito quasi quanto i loro cannoni.
Barbicane conservavasi freddo, impassibile in mezzo a quegli entusiastici applausi; forse egli voleva rivolgere ancora qualche parola ai colleghi giacchè i suoi gesti reclamarono il silenzio, ed il campanello fulminante ripetè più e più volte le sue violenti detonazioni. Non lo si udì neppure. In pochi secondi ei fu strappato dal seggio, portato in trionfo, e dalle mani dei fedeli colleghi passò sulle braccia di una moltitudine non meno commossa.
Nulla può sorprendere un Americano. Si è ripetuto spesso che la parola impossibile era francese; ma al certo ci fu scambio di dizionario. In America tutto è facile, tutto è semplice, e quanto alle difficoltà meccaniche sono morte prima di esser nate. Fra il piano di Barbicane e la sua esecuzione non un solo vero Yankee sarebbesi permesso di intravedere l'apparenza di una difficoltà. Detto fatto.
La passeggiata trionfale del presidente si prolungò nella sera. Irlandesi, Tedeschi, Francesi, Scozzesi, tutta la gente diversa di cui componesi la popolazione del Maryland, gridavano nella loro lingua materna, e gli urrà, i viva, i bravo frammischiavansi in un inesprimibile slancio.
Appunto, come se avesse compreso che trattavasi di lei, la Luna brillava allora, con una serena magnificenza, facendo impallidire colla sua intensa irradiazione i fuochi circostanti. Tutti gli Yankees dirigevano le pupille verso il disco scintillante; gli uni la salutavano colla mano, gli altri la chiamavano con dolci nomi, questi la misuravano collo sguardo, quelli la minacciavano colle pugna; dalle otto a mezzanotte, un ottico di Jone's-Fall-street fece la sua fortuna vendendo occhiali. L'astro della notte era occhieggiato come una lady della scelta società. Gli Americani già lo trattavano con libertà da proprietari. Pareva che la bionda Febea appartenesse ai nostri audaci conquistatori, e già facesse parte del territorio dell'Unione. Eppure, non si trattava ancora che di mandarle un proiettile, modo abbastanza brutale per istringere amicizia anche con un satellite, ma molto in uso nelle nazioni incivilite.
Già era suonata la mezzanotte, e l'entusiasmo non scemava; mantenevasi allo stesso diapason in tutte le classi della popolazione: il magistrato, il dotto, il negoziante, il mercante, il facchino, gli uomini intelligenti come gli uomini verdi15 sentivansi turbati nelle loro fibre più delicate; trattavasi di una impresa nazionale, e però la città alta, la città bassa, le rive bagnate dalle acque del Patapsco, le navi imprigionate nei loro bacini rigurgitavano di una folla ebbra di gioia, di gin e di whisky; ognuno conversava, perorava, discuteva, disputava, approvava, ed applaudiva: dal gentleman steso con noncuranza sul canapè dei bar-rooms davanti alla sua caraffa di sherry cobbler16, fino al waterman che ubbriacavasi di rompi-petto17 nelle tetre taverne del Falls-Point.
Tuttavia, verso le due, il turbamento si calmò. Il presidente Barbicane potè far ritorno a casa sua, stanco, rotto, madido di sudore. Ercole non avrebbe resistito ad un simile entusiasmo. La calca abbandonò a poco a poco le piazze e le vie. I quattro rail road dell'Ohio, di Susquehanna, di Filadelfia e di Washington, che convergono a Baltimora, rimandarono il pubblico ai quattro angoli degli Stati Uniti, e la città riposò in una certa tranquillità.
D'altra parte sarebbe errore il credere che durante quella sera memorabile Baltimora fosse l'unica città in preda a siffatta agitazione. Le grandi città dell'Unione, Nuova York, Boston, Albany, Washington, Richmond, Crescent City1819